Il “mondo di ieri” a via del Corso – di Fernando Acitelli

M’aggiro per via del Corso come uno scavicchiato colonnello Chabert che s’avvia dal notaio, nel mio caso che s’avvia a rovistare in un Passato irreparabilmente dissolto. Chissà quali fascicoli potrò consultare per ricostruire qualcosa…Certi negozi, finiti dove? E i proprietari? A soccombere dove? In un palazzo di pregio oppure, finiti male, fuori Roma, in un devastato latifondo, in un dimenticato cantuccio di mondo? La scena pare quella di Gerard Depardieu proprio nel film “Il colonnello Chabert”, ma la mia chioma è fluente, e sono ancora compostamente adulto; il cappotto è lungo e con bottoni dorati, da ex di tutto, da ex bonapartista, da ex della Grand Armée, da ufficiale della Guardia nazionale, dunque, riassumo in questo cappotto e nella lunga chioma tutti i miei fantasmi. Vorrei chiamarlo pastrano, ma è un cappotto lungo che vorrei mi coprisse gli stivali. Va bene. Pure impolverato il lungo cappotto in doppio petto, cosa che non guasta, ma impolverato per accadimenti naturali non per finzione, proprio no. Almeno io mi sento veramente un reduce, fa lo stesso se della Grand Armée o della Guardia nazionale.

Dunque via del Corso. La prendo dalla chiesa di San Marcello, uno slargo ancora che resiste. Pare che il padre di Sergio Corazzini avesse una rivendita di tabacchi in questo luogo. Devo averlo letto da qualche parte: forse sovrapposizione di ricordi? Credo di no, ma il conforto è pensarlo lì, il poeta e suo padre. Riprendo ossigeno ad ipotizzare tanto e mi paiono minori, dunque, le ferite. Sergio Corazzini e le sue chiesuole ed il suo male autentico e non costruito in laboratorio con “stage sulla poesia”, con “seminari sul dolore”, con insegnanti/illusionisti o reduci da una Weimar condominiale e che non hanno il minimo pudore e che fanno finta di non sapere che i versi non s’insegnano. Ciao Corazzini, proseguo.

Cos’è rimasto della Galleria Colonna? Nulla! Il “Gran Caffè Berardo” è dissolto in un’apoteosi di finzioni, condivisioni e sintetico. Anche il pensiero ha a che fare, e non poco, con il 100 per cento poliestere. Vi è il megastore Zara, che giunge come qualcosa la cui testa finale non è rintracciabile. E del cinema Ariston 2? Nulla! Ma per fortuna ci sono i libri, qualcuno ha occupato saggiamente quel luogo. Ma torno al “Gran Caffè Berardo”, grande, luminoso, arioso, con camerieri impeccabili e sempre scrimati, e lucenti in quelle chiome ondulate, o tirate all’indietro alla Ferenc Puskas. Si potevano vedere onorevoli seduti dentro il “Gran Caffè Berardo”, soprattutto nella tarda mattinata, ma non era evento infrequente incontrarli nella lunga traiettoria di giorni che precedeva il Natale. Negli anni ci vidi, tra gli altri, Malagodi, Romita, Orlandi, Trombadori, Galloni, Bozzi. E in giorni diversi attrici e attori: Olga Villi, Lilla Brignone, Paolo Quattrini e Massimo Serato. La Galleria Colonna propendeva per silenzi e carezze; s’entrava in quello scrigno vellutato e la sensazione era d’un rifugio e il transitare lì dentro pareva una salvezza a portata di mano. E poi il negozio Santagostino sulla sinistra, abbigliamento femminile di pregio, le cui vetrine davano sia nel pronao che internamente, nella galleria. V’era inoltre la ricevitoria del Totocalcio, nel segmento di destra entrando dalla parte di via Corso, e lì dentro una zazzera del mondo quieta, che si poteva definire “da centro storico”, e dunque, pur se con qualche estremismo a via di balbettii contro la malasorte, sicuramente tranquilla. Era ancora quel popolo che viveva al centro e l’esproprio non c’era ancora stato e neppure il neocolonialismo dei ricchi oltre Fontana di Trevi, in via del Lavatore, ma anche altrove ai Coronari, a Campo de’ Fiori.

zara-roma-via-del-corsoDalla parte opposta della Galleria Colonna, nell’altro ramo in cui essa si snodava, v’era un negozio d’abbigliamento straordinariamente vero, di maglieria di pregio, camicie, foulard e biancheria intima. Sembrava la risposta maschile al già citato Santagostino. Erano, le due vetrine, un affare lucente e in esse s’ammiravano camicie disposte a ventaglio come cinque carte di poker, e poi maglie di lana, sia rasata che consistente e, d’estate, il vero trionfo era quello di camicie e polo di puro makò egiziano; nella mostra v’erano dei ripiani oltre i quali s’intravedeva l’interno del negozio con scaffali e cassetti ricolmi di capi e tessuti di pregio. I cassetti avevano il pomo di legno. Nella mostra, davanti ai ripiani, v’erano dei pendenti dorati ed essi altro non erano che staffe di cavallo entro cui, in una composizione simmetrica e serica, stavano sospesi foulard e fazzoletti da taschino. All’interno il vecchio proprietario pareva un tipo dei tempi del Giolitti con tanto di baffo e basette folte ma s’avvertiva del bene anche ad adagiarlo al tempo di Papà Goriot. Accanto, un commesso ormai di famiglia, un figlio quasi, un uomo sui quarant’anni che doveva avere anche studi classici sulle spalle e, quando serviva un cliente, pareva stesse commentando un passo metafisico di Aristotele o una satira d’Orazio tanto s’esprimeva con attenzione e rigore, e – in una conversazione altrove – lo si sarebbe potuto scambiare per un avvocato o anche per un medico. Questo era il tempo lieto della Galleria Colonna e, ripreso coraggio dopo l’essersi rifugiati in quello scrigno, s’usciva, si rimetteva piede nel mondo, ed ecco allora la Rinascente in largo Chigi della quale si pensava – a ragione – che l’abbigliamento di pregio fosse possibile per tutti e con prezzi contenuti. Le commesse della Rinascente rappresentavano un po’ la variante “privilegiata” delle stesse di Upim e Standa e poi in esse v’era un quieto “atteggiarsi”, il poter  dire che il loro lavoro si svolgeva al Corso, di fronte a Palazzo Chigi. E comunque, un punto Standa stava anche in centro, precisamente lungo via del Corso, dopo Viser e prima dell’Ottica Lucchesi.

Ma torniamo alla Rinascente: da essa si raggiungeva con agilità il Caffè Aragno, posto tra via del Corso e via delle Convertite. Su tale Caffè s’è detto molto, innanzitutto luogo ampio, lucente, propositivo verso il sorriso ed il pensiero da elaborare; inoltre, bar-ritrovo di scrittori, poeti, pittori con uno sciamare profumato di donne, rappresentanti tutte le categorie professionali. Erano lì per cosa le vaporose di turno? Soltanto in cerca d’un autografo o anche per poter sognare un incontro fatale con qualche regista? Le fragranze si sollevavano al pari dei sogni e i versi lì dentro avvenivano con poeti dal cappottone solenne anche se logoro, ricucito, “ridotto male”. Quali pensieri allineati sul quadernetto! Quali prosette! Quali rime! Quali spunti per un soggetto cinematografico da un paio di battute azzeccate da parte d’un poeta a corto di pasti ed un pittore confinato sui tetti di via Margutta e con l’avviso d’andarsene! Il cortocircuito tra quell’imprevisto dialogo innalzava già una sceneggiatura. Di fronte al Caffè Aragno, all’angolo, il trionfo di Luisa Spagnoli, le cui vetrine erano un elogio di twin set e collane di perle. Ora lì v’è la Biblioteca della Camera dei Deputati e fotografie che innalzano già procedimenti d’imbalsamazione politica. Un tempo, sfilando davanti a quelle vetrine, i cui ripiani erano d’un raso dorato, rosa ed azzurrino, s’aveva la percezione che il bello prevedesse anche il buono, ed era come se ci potesse convincere che la parola avesse ancora un senso e che non c’erano master e marketing per finire da Luisa Spagnoli, ma soltanto buone maniere più che visibili, spontanee, e poi nitore di gesti, parole e sorriso.

Sullo stesso lato, ma prima di Luisa Spagnoli, il negozio Frette, apoteosi della spugna e dei corredi da bagno; tutti quei colori accatastati, parevano donare il sorriso a quegll’edificio e a tutto quel luogo soffocando  così il grigiore del Credito Italiano, sulla cui facciata stava fissata una lapide che ricordava il transito in loco del poeta Shelley. E prima ancora di Frette il negozio di scarpe Shoes’Shop, ecco la precisione; e di fronte, nelle vetrine della Riunione Adriatica di Sicurtà con annessa galleria, s’alternarono negli anni prima Babilonia, negozio di confusione con abbigliamenti e oggetti per mutevoli di pensiero e illusionisti, per ex femministe transitanti, negli anni ’70, per Campo de’ Fiori e via dei Giubbonari in cerca di uomini del Gange, di santoni, di fanfarroni con angoli affrescati da barboni in canna; e poi, dopo aver chiuso Babilonia, Cantieri del Nord, trionfo dei giubboni da marinaio, degli anfibi, dei maglioni a dolce vita, dei fibbioni, e in definitiva, d’una ipertrofia baltica e di pensiero. Fu lì che s’incominciarono a vedere i capelli verdi per le ragazze e calze bicolore con anfibi ed una audace riproposizione della minigonna. Per l’uomo, per il ragazzo, l’orecchino proprio lì ebbe un’impennata. Il piercing germinò in quel luogo. I Cantieri del Nord aprirono tutta una serie di titoli nella letteratura svelta, quella che andava di fretta, con individui opachi che non s’adducevano allo scrittoio e che non sopportava più le proposizioni consecutive, le finali, gli imperciocché, gli adunque e poi gli è che; e insomma s’innalzò chi per pigrizia e vuoto interiore aveva deciso “di farsi scrittore”, di insoffittare Tommaso Landolfi e anche l’eco di Giovanni Papini. Tommaso Landolfi con la sciarpa perfettamente chiusa dentro il soprabito. E i Cantieri del Nord che stavano poco prima di dove era stato un tempo il Caffè Aragno, dove certamente aveva “soggiornato” l’autore di Ottavio di Saint Vincent, di A caso, di Rien va. In un negozio come Cantieri del Nord, con un tale pensiero ondeggiante e un’immediatezza figlia d’un acrilico progressismo, un’immagine di Giovanni Papini in giacca da camera – foto fissata su una qualche parete – sarebbe stata un oltraggio.

Da ricordare via delle Convertite che, sebbene strada stretta – breve tratto coronarico tra piazza San Silvestro e via del Corso – metteva in mostra splendidi negozi, e infatti l’orologiaio Savona e l’ottico Ruben Belgoraj, appena una vetrina oltre il Caffè Aragno e poi, di fronte, all’angolo tra via delle Convertite e via del Gambero, il negozio di calzature Magli per entrare nel quale sembrava si dovesse essere accompagnati dai genitori; negozio per adulti, soprattutto, ma che impreziosiva quell’angolo come del resto faceva il negozio di stoffe Galtrucco, tra via del Tritone e via Poli. Ma via delle Convertite aveva un altro negozio notevole, piccolo in verità, quasi di fronte all’ottico Belgoraj, e si trattava d’un gioiello dove le scarpe si facevano a mano, e dunque una delizia di cuoio e pelle e modelli che non si potevano trovare altrove. E la vetrina trasmetteva, con quelle scarpe in mostra, un senso di irraggiungibilità che faceva bene all’animo perché già la vista di quei modelli rasserenava. E col mostro invisibile e planetario era logico che que gioiello di negozio si dissolvesse. Appresso a tale ambiente ricamato, superato un portone, si giungeva all’angolo con via del Corso e, proprio in quell’angolo, si prendevano decisioni giuste su dove proseguire, se verso piazza del Parlamento ed il Campo Marzio, oppure per il Corso. Il semaforo faceva ripigliar fiato ed uno lo pensava proprio in quel punto l’itinerario. Ma quell’angolo fu anche, negli anni, negozio di scarpe, Tradate prima e successivamente Ramirez.

Da quel punto, procedendo per il Corso, s’aveva un’oscurità intensa e niente spiccava e la parte posteriore dell’edificio del Banco di Napoli, poco prima del “vicolo” dei Giardini Theodoli e del Cinema Nuovo Olimpia, trasmetteva senso d’abbandono per come i negozi rimasero a lungo spenti. Con via della Vite si riprendeva coraggio e infatti, all’angolo con via del Gambero, il negozio Vladimir s’esibiva in maglie a più non posso, e i colori dominavano quel negozio e poi le composizioni di maglioni uno sopra all’altro oppure, se di lana rasata, disposti a ventaglio. E su via del Gambero, dove oggi c’è un negozio di saponi e fragranze naturali, esisteva il nobile negozio Petronio, breve galleria dei capi pregiati e di  maglioni con “guarnizioni” di renna, blazer a bottoni dorati, foulard, camicie, gemelli per le stesse, e poi colori e rimandi ad atmosfere inglesi ma comunque “imbrattate” di italiano, con un che di borbonico pure, tipo foto in ovale, sigaro, gilet, marsine, papillon, bastoni con pomo tondo o muso di levriero. Era la vista nell’unica, mezza vetrina, a trasmettere un tepore interno; non che si dovesse obbligatoriamente aspirare a capi simili, ma la loro ossevazione creava intimamente dei mondi in cui sembrava che la parola fosse ancora una distinzione. Da quella vetrina, alzando lo sguardo in via Frattina, sulla destra, la scritta e la sede del Partito Liberale Italiano. S’era dunque in via Frattina e lì, proprio nel mezzo, due negozi sulla sinistra, a breve distanza l’uno dall’altro, Osvaldo Testa prima di via Bocca di Leone e Santini&Dominici prima di via Mario de’ Fiori, donavano un affresco di novità sempre sul registro, comunque, del classico. Osvaldo Testa con capi d’abbigliamento ad andatura dandy con, d’estate, un grande affresco di indumenti in lino e pantaloni anche col risvolto in un’epoca, ancora, del tutto scampanata, e poi maglie a righe, vistose, e panama, e per poco ci mancava il bastone e il monocolo. Ma nel taglio di quegli abiti v’era comunque una rottura, qualcosa che, pur richiamandosi al classico, lo riscriveva con tocchi inaspettati e così, anche un pantalone “scampanato” era diverso in quelle vetrine. Ed una giacca si scopriva “inaspettatamente” un po’ corta e magari a martingala non penzolante. Erano riproposizioni da foto avvistate nel Primo Novecento, modi di fare d’uomini a margine del  d’Annunzio al Pincio, o dello Scarfoglio poggiato lievemente sul bordo d’una carrozza, quasi per non rovinare quell’orlo. Lo Scarfoglio immortalato in via Sistena, con il Fanfulla della Domenica in mano.

E d’inverno le vetrine di Testa erano adorne di cappottoni in doppio petto, di lana pregiata, pesante, e magari, appese accanto, stavano camicie di tessuto scozzese blu-verde oppure blu-rosso-verde, a colletto tondo e con l’agguato d’un vistoso papillon. E poi scarpe massicce, bicolore, e cappelli d’un Borsalino rivisto e corretto. E calzettoni coloratissimi, in anticipo sui più “stravaganti” maître à penser della moda. E v’era luce da Testa in via Frattina e non s’avvertiva la differenza con la strada: tutto sembrava continuare lì dentro se pure ci si muoveva avendo attorno innumerevoli chance per sublimi avanzamenti d’identità. E poi Santini&Dominici, un negozio con entrata a cunicolo e pareti di specchi e poi cubi colorati su cui stavano poggiate scarpe a punta – Cesare Paciotti dunque non s’è inventato nulla – ed era qualcosa riferibile ad Andy Warhol per l’oggetto centrato, staccato da tutto il resto, bene in mostra su quel cubo, su quei cubi. Scarpe strane che all’epoca potevano essere acquistate da individui spettrali con mantello, dandy rivedibili, poeti più che velleitari citanti, alla fine, soltanto Garcia Lorca e Prevert, ecco, e poi individui alti, colorati d’abito e  già modellantesi come esperti in pubblicità. Anche il cartellino con il prezzo indentificava un mondo novo, ritaglio di carta lucente, al confine con la plastica, e poi il prezzo nitido, come il grassetto odierno del computer.

A riprendere il Corso – a parte lo slargo di piazza San Lorenzo in Lucina dove brillava il cinema Etoille, già edificio schizzato dall’architetto Piacentini – ci sorprendeva Schostal, di fronte alla gioielleria Haussman, uno Schostal già dotato d’una sua traiettoria ben definita, antico a dirla tutta, con biancheria intima e poi maglieria, camiceria sia per uomo che per donna. Già l’entrata, con un rumore a sonagliera, decretava un pensiero, e poi un trionfo di scaffali lignei e banconi sempre di pregio, con vetro, sotto il quale v’erano esposti capi d’abbigliamento, dai calzettoni alle camicie, ai pigiami. E poi l’universo delle donne di Schostal, un universo alla De Sica e “Maddalena zero in condotta”, da “Gli uomini che mascalzoni”; e si trattava di uno sfilare composto di donne in età e più giovani, tutte riassunte in un “frasario essenziale” e in traiettorie di gesti che sembravano derivare da una scuola di buone maniere. Tali donne erano in completo blu, ma non sempre indossavano la giacca, più spesso alla gonna e alla camicetta a colletto tondo era associata una maglia di lana rasata blu, ecco dunque come esse  apparivano, come accoglievano i clienti e, una volta sentita la richiesta, il loro spostarsi, il loro voltarsi verso gli scaffali ed il tirar fuori la camicia o il pullover accadeva in un’atmosfera che sembrava vellutata. In poche parole, col chiasso fuori, si sarebbe desiderato rimanere un intero pomeriggio da Schostal, anche soltanto a conversare, come si fosse in una sala da tè: la civiltà della conversazione, là, a via del Corso, e non più da madame du Deffand. Scelto il capo desiderato era come un’impresa recarsi alla cassa perché questa azione sarebbe stata la premessa dell’abbandonare quella scena. All’epoca ogni donna là dentro corrispondeva ad un nostro stato mentale: c’era la possibile ragazza, c’era nostra madre e, anche, una ancor giovane nonna, bisognava soltanto concentrarsi e cogliere il vero di tali sensazioni/corrispondenze.

Da Radiconcini, poco prima di Largo Goldoni, v’era elogio di soprabiti, cappelli, sciarpe; era possibile, lì dentro, “incontrare” Fouché oppure l’immenso Tino Carraro nei panni dell’ispettore Javert. Ecco, uno entrava da Radiconcini e aveva personaggi simili dinanzi e sognando a quel modo si dimenticava anche cosa si dovesse acquistare; oppure, accantonato il sogno, s’aveva ventura d’un buon notaro, d’un commendatore con solenne soprabito, e sotto la giacca, nel panciotto, orologio a catenella; e quel cappotto era largo per una mole ai confini d’un Balzac del quartiere Prati. Ma a chi dirlo il tepore di lì dentro che si coglieva e che puntellava la vita meglio di qualsiasi, prolungata serenità in granuli? L’Unione Militare, di fronte, al principio di via Tomacelli e per un buon tratto di via del Corso, quasi di fronte al Plaza. In un linguaggio non ancora disinfettato come l’odierno, si poteva dire d’aver acquistato un capo d’abbigliamento all’Unione Militare; del resto v’era stata una riconversione, mica si vendevano indumenti per la guerra! Adesso con H&M sono tutti contenti. Un’altra multinazionale “modello Zara”, dalla testa invisibile, introvabile. E di fronte alla vecchia Unione Militare, nell’odierno palazzotto Fendi, v’era una farmacia e poi il negozio di scarpe Thomas, tra via Tomacelli e via del Leoncino. Diserzioni e dissolvimenti più non si contano e così un accenno va fatto per Polidori, negozio di stoffe tra via Borgognona e via Belsiana, e poi Polidori-Uomo, in via Condotti, prima del Caffè Greco, suntuoso negozio d’abiti maschili. Cosa ora? Damiani Gioielli e poi Cartier. E tutta questa quiete fin ora descritta pareva avere un ricamo ulteriore con il negozio Cervone, scarpe d’ottima qualità, negozio adocchiato dai “pariolini” alla metà degli anni ’70. A quel tempo s’era diffusa la moda, a Roma, dei “pariolini” che non dovevano essere necessariamente dei Parioli; e a gettare questo polline nell’aria, questo “poter essere pariolini ovunque” poteva essere stato – poteva, perché non ci sono prove decisive – un certo Mister Franz, factotum delle discoteche di Roma, prima fra tutte il “Black Jack” in via Palermo. Questa la canzonetta dei “pariolini” anche del Prenestino, del Collatino, dell’Appio  Claudio e d’altri quartieri:  Con il basco e i cravattini e le scarpe di Santini e lo stemma di Cervone attaccato sul vespone, siamo belli siamo tanti, pariolini tutti quanti. E tutti costoro indossavano il basco di loden blu, gli occhiali Cebè, da neve, con le lenti a specchio, il loden sempre blu, le camicie bianche botton down con il cravattino, il pullover di cachemire (o, più modestamente, di Benetton), e quindi jeans Spitfire e scarpe di Cervone che erano mocassini con o senza frangia sul davanti. Ecco, s’era lanciata la moda e il negozio di scarpe Cervone in via del Corso, poco dopo l’Hotel Plaza e sullo stesso lato, era diventato una sorta di muretto per i “pariolini” di ogni quartiere che aderivano a quella estetica del blu, forse lanciata da mister Franz, e che d’estate, prevedeva la Lacoste la cui qualità era, a quel tempo, essere soltanto di tre colori: bianca alla Nicola Pietrangeli, blu, celeste. E tutti questi “pariolini” si riconoscevano sul vespone bianco ed anche per le Clark di camoscio e il Baume&Mercier al polso, spesso falso, comprato agli ultimi banchi di via Sannio, quelli “profondi”, quasi sotto la basilica di  San Giovanni. D’estate il giubbino stretto in vita, blu oppure avana, s’acquistava da “Bartocci Sport” in viale Regina Margherita oppure, in un viaggio che pareva avventuroso, al mercato di via Sannio.

Era pur vero che i giubbetti della Farrow’s, le cui maniche andavano arrotolate fino al gomito per far vedere il Baume&Mercier o il Piaget o il Cartier – che fossero più o meno autentici valeva poco – potevano acquistarsi anche da Primo in via della Scrofa, negozio a breve distanza da Piazza Cardelli. Ora lì c’è una banca o qualcosa riferibile al denaro, non che si capisca molto sfilando là davanti. Primo era un giovane uomo, con i capelli corti, biondi e crespi e che pareva essere vissuto a Saint Tropez nella stagione favolosa. Era vestito con jeans attillati, Lee, e camicia sempre di blu jeans. Entrambi quei capi erano scoloriti ed erano perfetti sugli stivali de El Charro, scamosciati, che soltanto lui e pochi altri, in quel magico 1976, calzavano a Roma. Si finiva da Primo non soltanto per quelle solenni scoloriture di jeans e camicie ma anche per vedere quella splendida fanciulla che gli stava accanto. Splendida fanciulla, chioma nera lunga, ondulata, e occhi verdi, spettacolari anche perché dal taglio a mandorla. Un fisico bello, pieno e slanciato a un tempo; ma la ragazza di Primo non la si sarebbe sfiorata neppure col pensiero e tutti, dentro quel negozio, desideravano essere amici di lui proprio a motivo del suo essere sempre acchittato, e poi per il suo fascino da amatore, con il viso già vissuto, già segnato da qualche ruga pur potendo avere, egli, poco più di trent’anni. E lui ne dispensava di consigli per essere un fico, e spiegava “accoppiamenti giudiziosi” tra jeans e giubbotti di pelle e meraviglioso era, a vent’anni, possedere uno Schoot con pelliccia interna, giubbotto di pelle che soltanto El Charro a quel tempo vendeva. E quel negozio, El Charro appunto, stava in via di San Giacomo, al Corso, subito dopo via dei Greci. Lì dentro, tutti gli stivali possibili, dai camperos in pelle a quelli scamosciati a quelli dalla punta più arrotondata; e poi giubbotti, cinte, camicie e giubbe. Era una sorta di “store” in un film western.

Tornando al Corso, ve n’erano ancora delle perle e, a pensarci adesso, si finisce ad un passo dal pianto. Altro negozio notevole – abbigliamento classico ma non soltanto per adulti – era, nel palazzo del partito socialista, Benedettini, tre grandi vetrine poco prima di via della Frezza. All’interno e dinanzi le vetrine, s’ammiravano persone confinate nel benessere delle strade tutt’intorno, via Vittoria, via della Croce, Fontanella Borghese ma anche individui provenienti da quartiere Prati, oltre Ponte Cavour. Si scaldavano a quel calore che un “negozio di fiducia” poteva all’epoca donare, come l’ancora presente Maesano, in Piazza Fontanella Borghese e l’ancora in vita Caleffi, a Montecitorio, che stacca ancora tutti. Benedettini era qualcosa in più di Zingone in via della Maddalena, nei pressi del Pantheon, e sullo stesso piano di Arena in via di Campo Marzio. E Davide Cenci in quest’ultima strada dominava e, con gli anni, ha acquisito anche le vetrine dove un tempo c’era il negozio di bomboniere Vagnozzi, poco prima di via degli Uffici del Vicario. È inutile dire che la merceria Ciuffetti, di fronte a Davide Cenci, sia scomparsa. Cosa ancora in via del Corso? Innanzitutto da segnalare altre macerie come la chiusura del secondo negozio di Santini&Dominici poco dopo il mitico Vadim, entrambi scomparsi già da più d’una trentina d’anni. Il negozio Vadim stava a breve distanza dal cinema Metropolitan – anche quest’ultimo in attesa di una s.a.s. di badanti – e vendeva tra i più bei capi d’abbigliamento di Roma per quanto riguardava jeans, polo, camicie e giubbetti sempre in jeans. Dire d’aver acquistato i jeans da Vadim era quasi un titolo onorifico. C’erano due entrate e vetrine ricche, colorate e un venditore (il proprietario?) con lunghi capelli biondi e dei baffi che, se lo invecchiavano un poco, lo facevano sempre un “fico” perché era uno che non portava la canottiera e gli si vedeva eccome il petto villoso sul quale si stagliava una capezza d’oro con maglie non eccessive. E intorno giovani commesse, spensierate, innamorate con prospettive, non flessibili se non come loro decisione di mollare per altri luoghi; giovani commesse ancora risolte nei jeans a campana, e poi con magliette che erano scolorite e che, con quel lavaggio particolare, comunicavano atmosfere psichedeliche. Da Vadim non si sarebbe più usciti perché era come soggiornare da una pagina ad un’altra d’un rotocalco, nelle innumerevoli storie del jet set e poi era meraviglioso perché anche lì si cominciava a sentire il profumo, l’essenza del Brut Faberge, boccetta verde con medaglione argentato sul collo.

Si riprende ossigeno in quell’ultimo tratto di via del Corso con il cunicolo di “Piero il fichissimo”, che da più di quarant’anni sta lì, di fronte al Metropolitan. Anche là i jeans che hanno segnato un’epoca, per lo più negli anni ’70; “Piero il fichissimo” è stato uno dei primi negozi – negozietti, più giusto – ad essere pubblicizzato allo stadio Olimpico prima dello scendere in campo della Roma. L’altoparlante era chiaro su quella sintesi “Da Piero il fichissimo, in via del Corso!”, E ancora: “Zingone veste tutta Roma!”. È rimasto anche l’Ottico Spiezia, in via del Babuino, ed è da lì che forse si può, con altre lenti, non vedere il nuovo mondo. L’Ottico Spiezia sta lì da quarant’anni come la libreria Feltrinelli, poco oltre. Mi metto a fissare proprio quei sette metri quadrati resi, con perizia, funzionali, e penso che lì dentro le lenti possono far vedere meglio, oppure oscurare del tutto quello che non si vuole vedere. Mi servirebbero lenti come quelle di Dustin Hoffman in “Papillon”, a lui perfette, ma efficaci anche su di me per bloccare il lavoro degli occhi e quindi della mente: non chiudere gli occhi ma “vedere male”, sta forse in questo la salvezza. In vetrina ci sono montature tra le più belle di Roma; il proprietario è sempre lo stesso, certamente un po’ mutato nei tratti e nella chioma ma sempre un bell’uomo ed elegantissimo. Naturalmente ha visto anche la “Scuola di Piazza del Popolo”, i pittori, ma anche lui ha assistito al dissolversi d’ogni cosa; malgrado tutto, punta sempre sulle lenti per la correzione dei difetti visivi. Lui sì che ancora ci tiene a vedere questo mondo, al pari dei suoi clienti. Se entrassi lì dentro, ordinerei senza paura: “Una bella visita e lenti più che scure per questo malandato e stanco colonnello Chabert”.

 

 

 

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