Come siamo, come eravamo – di Ilaria Romano

 

italia anni 60

Il rapporto annuale 2016 dell’Istat fotografa il paese come uno dei più invecchiati al mondo, insieme a Giappone e Germania, con il più basso impatto delle nuove generazioni sul totale dei residenti; ma rivela anche un inesorabile cambiamento di stili di vita che ha subito un’accelerazione definitiva. Tenendo conto che quest’anno la popolazione fino a 24 anni di età è scesa sotto il 25%, e nel 2015 le nascite in Italia hanno raggiunto il minimo storico dall’Unità: 488 mila, 8 neonati ogni mille adulti.

La popolazione italiana è fra le più longeve, con un’aspettativa di vita fra le più alte d’Europa insieme a Spagna, Cipro, Svezia e Olanda. L’indice di vecchiaia al primo gennaio 2016 è di 161 persone con più di 65 anni su 100 giovani con meno di 15 anni, che salgono a 171 nel Centro e scendono a 143 nel Mezzogiorno. La media europea è di 120 over 65 su 100 under 15. Anche il concetto di anzianità però si modifica: l’età convenzionale di 65 anni non corrisponde più alle reali condizioni della maggior parte della popolazione, e viene per questo spostata in avanti di otto anni per gli uomini e 10 per le donne.

Questa sproporzione generazionale ha conseguenze dirette non solo sulle nascite, ma anche sull’accesso al mondo adulto, sull’occupazione, e dunque sugli stili di vita. Negli ultimi vent’ anni importanti cambiamenti hanno rimodulato i ruoli di uomini e donne nelle famiglie e nelle diverse fasi dell’età adulta. Sono diminuiti i genitori in coppia e aumentati quelli single (+9,6%), come pure le coppie senza figli (+2,6% per gli uomini e +4,4% per le donne). La stessa dinamica si riscontra nella fascia di età fra i 40 e i 44 anni, come pure nelle classi successive (45-49 anni e 50-54 anni).

Tra gli uomini di 65-69 anni diminuisce la quota di quanti vivono in coppia, con o senza figli, e aumenta quella dei single; per le donne tra 65 e74 anni aumenta del 10% chi vive in coppia senza figli. Facendo un confronto con i decenni passati, se l’80% degli uomini nati negli anni Quaranta andava a vivere da solo, si sposava e/o aveva dei figli entro i trent’anni, questa percentuale è diminuita costantemente fino al 30% del 2015 fra i giovani, 25-29 anni, della generazione del millennio. Si resta in casa della famiglia di origine più a lungo, perché i tempi di studio si sono allungati, e le difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro sono aumentate. L’età media del matrimonio è salita a 34 anni per gli uomini e 31 per le donne.

Facendo un confronto col passato, nel 1926 il 95% delle donne che si sposava non aveva un lavoro al di fuori dell’ambiente domestico, fatta eccezione, in alcuni casi, per qualche mansione agricola. Nel 1952 ancora il 70% delle donne non lavorava al momento del matrimonio, e solo il 2,4% di unioni era celebrato con il rito civile. Eppure già in quegli anni si intuiva un principio di cambiamento: nonostante l’incremento delle nascite e delle nozze (335 mila nel 1952 e 354 mila nel 1976), dal 1926 al 1952 cominciano ad aumentare anche le separazioni legali (da 3,3 per 100 mila abitanti a 10,9).

A metà degli anni Sessanta la prima transizione demografica si conclude, e dà avvio ad un’altra fase caratterizzata da natalità più bassa e nuovi modi di fare famiglia. Sono gli anni della legge sul divorzio e poi della 194. Nel 1975 viene approvato il nuovo diritto di famiglia e tra le modifiche più importanti ci sono la potestà condivisa fra i coniugi, la loro uguaglianza e un nuovo regime patrimoniale, oltre alla revisione delle norme sulla separazione. Il rito civile passa al 9,4% nel 1976, mentre le separazioni arrivano a 38,1 per 100 mila abitanti, nello stesso anno.

Il periodo che va dagli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta è particolarmente importante per l’espandersi della seconda transizione. Le trasformazioni sociali ed economiche innescate negli anni Settanta e Ottanta hanno, infatti, provocato profondi cambiamenti sul piano del costume, dei modi di vivere, e della partecipazione al mercato del lavoro, in particolare per le donne. Il tasso di attività al femminile è passato dal 31% del 1976 al 45,9% del 1996 fino al 54,1% del 2015, ma resta ancora lontano dai livelli di attività maschili. La quota di donne che al momento del matrimonio non lavora, nel 2014 si è ridotta al 18%, mentre il numero di figli per donna nel 2015 è sceso a 1,35, e quasi l’8% dei nati nel 2014 ha una madre di almeno 40 anni.

I comportamenti familiari innovativi, che costituiscono il tratto distintivo della seconda transizione demografica, diventano anch’essi evidenti a partire dalla metà degli anni Novanta. I membri della generazione di transizione (nati fra il 1970 e il 1979) lasciano la casa della famiglia d’origine più tardi, e spostano in avanti tutte le tappe dei percorsi di vita. I matrimoni sono in forte diminuzione (190 mila nel 2014 contro 354 mila del 1976) e aumentano quelli celebrati con il rito civile (da 20,3% nel 1996 a 43,1% nel 2014). Se queste tendenze di periodo dovessero mantenersi costanti, conclude l’Istat, la metà delle donne della generazione del millennio (nate fra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta) non si sposerà mai nel corso della sua vita.

Sono sempre più diffuse nuove modalità di formazione dei nuclei familiari, con un forte aumento delle libere unioni, tenendo conto che fino alla fine di quest’anno si cominceranno a registrare anche gli effetti statistici dell’entrata in vigore della legge sulle unioni civili.

A distanza di 40 anni dall’avvio della seconda transizione demografica l’Italia si presenta profondamente trasformata: la famiglia composta dalla coppia coniugata con figli non è più il modello dominante e rappresenta nel biennio 2014-2015 il 32,9% del totale delle famiglie. Le libere unioni sono oltre un milione e per metà riguardano convivenze, mentre le famiglie ricostituite superano il milione.

Uno dei principali fattori di cambiamento è il prolungarsi degli studi, con conseguente rinvio dell’ingresso nel mondo del lavoro: nel 2014 in Italia il 56,9% delle giovani tra i 18 e i 34 anni e il 68% dei coetanei vivono ancora con i genitori (il 62,5% del totale contro il 48,1% della media europea). Questo comportamento si riscontra anche in altri paesi con legami familiari forti, come Spagna, Grecia e Portogallo, a differenza dell’Europa del centro nord.

A un’evoluzione degli stili di vita corrisponde, di contro, un’involuzione economica, dove il reddito da lavoro dei giovani di oggi appare direttamente correlato a quello della generazione dei loro genitori: questo implica che le condizioni economiche delle nuove generazioni dipendano in buona parte anche dalle opportunità patrimoniali offerte dalla famiglia d’origine. Sostanzialmente le condizioni economiche, ancora oggi, continuano a trasmettersi da una generazione all’altra, e dunque tendono anche a riprodurre fenomeni di disuguaglianza. In particolare, analizzando la fascia d’età dei 30-39enni che non vivono con i genitori, si riscontra che si tratta della prima generazione del Novecento che, almeno all’inizio della carriera, non ha la possibilità di migliorare le proprie condizioni sociali rispetto a quelle dei padri e delle madri.

Della trasmissione intergenerazionale degli svantaggi aveva già parlato un rapporto del 2011 di Eurostat, che aveva raccolto una serie di interviste su un campione di soggetti più ampio, fra i 25 e i 59 anni, a livello europeo. Oltre al perdurare delle condizioni di istruzione della generazione precedente, sono state considerate anche altre forme di propagazione degli svantaggi, come l’esposizione al rischio di povertà e la diversa propensione al lavoro, che non interessano in modo uniforme i paesi Ue ma investono in particolare quelli mediterranei. A livello europeo, le differenze di età, titolo di studio e posizione lavorativa più o meno stabile, sono le principali fonti di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, con un vantaggio, lo ribadisce il rapporto Istat di quest’anno, per gli individui con uno status di partenza alto (casa di proprietà e almeno un genitore con istruzione universitaria e professione manageriale). Non per tutti i paesi, visto che in Francia e Danimarca le condizioni di partenza pesano su meno del 40% delle giovani generazioni, ma certamente per l’Italia, dove la percentuale raggiunge il 63%, e il sistema di protezione sociale risulta essere uno dei meno efficaci.

 

 

 

 

 

 

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