“Come ho inventato la benzina del Real”. Intervista al manager Fabio Montecalvo – di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

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Il calcio moderno è un prodotto della società industriale e, per genetica, è sempre stato e sempre sarà una diretta rispondenza del modo di produzione e dei meccanismi economici che nel corso del tempo influenzano il divenire della società. È la storia a dirlo: appendice ludica della struttura del mondo, il calcio è stato momento dell’organizzazione del tempo libero operaio alle origini, strumento di propaganda all’epoca dei totalitarismi, discorso mitico di supporto nell’era postbellica della costruzione delle identità nazionali, fattore di crescita e investimento nella fase d’oro del capitalismo, spettacolo mediatico in evoluzione nell’era tecnologica (a partire dal celebre Mundialito organizzato da Canale 5), nonché prodotto della libera circolazione del lavoro e delle merci (dopo la legge Bosman) e infine, al giorno d’oggi, dei capitali. In quest’ottica è sempre più pregnante, sia quantitativamente che qualitativamente, il ruolo di investitori esteri dalle capacità di spesa smisurata, come dimostrano i casi universalmente noti del Paris Saint Germain e del Manchester City, o ancora, come suggerisce il recente exploit in fatto di investimenti della MLS americana o della Super League cinese. Non è dunque difficile immaginare la nascita e lo sviluppo di un progetto di ulteriore globalizzazione del calcio con importanti cambiamenti organizzativi. Se come in altri settori della grande macchina dello spettacolo sarà il possesso del capitale a determinare le future forme di progettazione, quale ruolo potrebbe avere la provincia marginale del calcio, rispetto ai grandi colossi che presto potrebbero voler dialogare soprattutto tra simili? Molti dei grandi club europei, stando agli organi di stampa, puntano a una Super Lega a inviti, che rivoluzionerebbe i criteri di competizione sul piano nazionale, mentre l’Italia sembra impantanata in grandi difficoltà di rinascita strutturale interna e pare affdarsi più che altro all’iniziativa dei singoli. È un imprenditore italiano, ad esempio, l’ideatore del primo progetto di marketing che collega il marchio di un club, il Real Madrid, al carburante per auto. Si chiama Fabio Montecalvo ed è pugliese.

 

Montecalvo, lei ha creato due società, la Fm Communications e la World football management. Di che cosa si occupano e, in particolare, che cos’è la Real Gasolina?

Fm Communications si occupa di comunicazione e marketing internazionale, prevalentemente in tre distinti settori: sport, compreso il marketing sportivo applicato al football, entertainment e relazioni con le istituzioni. World football management, che ha sede a Londra, lavora invece unitamente a una rete di agenti Fifa sul recruiting e il management degli atleti: dai contratti con i club, alla cura dell’immagine. Oltre a diventare, per l’appunto, Fm Group Uae, a Dubai, grazie alla sinergia con la famiglia Al Alaija, Fm Communications, ha raggiunto anche Abu Dhabi, grazie all’apertura di una nuova sede. Nel frattempo, giovedì 31 marzo, abbiamo inaugurato la location per noi più importante, a New York City, zona Central Park. Ma l’operazione di marketing più innovativa è sicuramente quella che stabilisce, primo caso al mondo, un legame tra un club di football prestigioso come il Real Madrid e una prima stazione di benzina, “arricchita” di un’area “relax e entertainment” e attrezzata di ristorante e di show room completo del merchandising del club (inclusa ovviamente la possibilità di acquistare i biglietti delle partite). In poche parole, noi forniamo il carburante, grazie alla famiglia dei miei soci arabi, e lo rivendiamo “griffato” in esclusiva da un club di football di altissimo livello. Di qui, dunque, la Real Gasolina.

 

Lei è nato negli anni 70 ed è cresciuto vivendo un calcio profondamente diverso da quello di oggi. È nato a Bari, quindi d’istinto le dico Stadio della Vittoria e Pietro Maiellaro. Mi racconta come viveva il calcio da ragazzo e come lo vive oggi?

Lo Stadio delle Vittorie è stato una vera icona per il calcio della mia città di origine. Ricordo che la prima volta a 11 anni mi ci portò mio padre, una ex ala destra dell’Ideale Bari, negli anni 50-60. Altri tempi. Comunque era un Bari-Como. Finì 1 a 0 per noi, se non ricordo male, con gol su punizione di Gordon Cowans. Nel Como giocava un certo Dirceu. Negli anni successivi, prima Maiellaro e poi Joao Paulo incantarono il Della Vittoria a ritmo di samba calcistica e con i numeri da top player di Pietro, con il 10 sulle spalle. Quel Bari lo conoscevo molto bene, perché negli stessi anni militavo nelle fila del Noicattaro in Serie D, un paese della provincia barese. Almeno una volta al mese, di giovedì, eravamo impegnati nell’amichevole infrasettimanale. O al Della Vittoria oppure da noi, al Comunale di Noicattaro. E comunque la linea difensiva biancorossa tribolava sui dribbling del mio carissimo compagno di squadra e amico, Riccardo Caiati, una punta tutto sinistro, che avrebbe meritato platee più importanti. Anni indimenticabili quelli, entravamo negli anni Novanta, gli stessi delle notti magiche.

 

Come si fa a far convivere una dimensione poetica del calcio e allo stesso tempo fare business?

Bella domanda. Credo si sia recepito il mio approccio emozionale verso una dimensione poetica dello sport. Credo però sia una prerogativa di quel calcio succitato. Oggi, l’industria del pallone è un’industria a tutti gli effetti. Ma l’evoluzione dei numeri finanziari talvolta obbliga tutti i settori ad equipararsi ai fatturati delle big competitors e ha trasformato l’industria calcio in una vera e propria holding del business, con società quotate in borsa, con la costituzione di società collegate ai club e che si occupano dei diritti televisivi, dei diritti d’immagine, della security e così via. Trovo poca poesia nel calcio attuale.

 

Non è passato molto tempo dallo scandalo che ha coinvolto la Fifa. Cosa pensano gli operatori economici, o gli investitori, del problema della corruzione interna agli organismi ufficiali?

Beh, credo che gli operatori economici guardino l’involuzione di certi fenomeni senza esprimere troppa meraviglia. Devono essere gli organi ufficiali competenti ad occuparsi di questo argomento. Dico solo che a mio avviso Michel Platini è un gran signore e un uomo molto intelligente. E mi fermo qui.

 

José Mourinho una volta ha detto: “Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”. È d’accordo?

Sono d’accordissimo. La sottigliezza di questo pensiero del Mou è abbastanza chiara. Purtroppo il mondo del calcio, in tutte le categorie di riferimento, è pieno di cosidetti “fenomeni” del pallone e di arroganti tuttologi. Sono proprio gli stessi a cui José fa riferimento.

 

Di recente ho letto un libro di un giornalista cileno, Juan Pablo Meneses, un reportage molto documentato sull’industria del calcio giovanile in Sud America, un ambiente complesso, in cui il sogno è una promessa per pochi e molti sono i fallimenti. Lei si interessa anche di questo aspetto del business calcio?

Mi sta molto a cuore il calcio sudamericano. Soprattutto quello brasiliano. Abbiamo un progetto in Brasile, il Young world football champions, un vero e proprio osservatorio calcistico internazionale, una sorta di “cantera” di Copacabana. L’obiettivo è lo “scouting” dei nuovi talenti, ma anche quello di reintegrare nella società civile, attraverso lo sport, i ragazzi delle favelas brasiliane “diversamente occupati” per usare un eufemismo. Mi sono mosso in molte direzioni in tal senso, a Rio de Janeiro. Poi, con alcuni partner ho portato quest’idea anche a San Paolo, perché, per un periodo limitato di tempo, mi ero occupato anche del Palmeiras. Ho avvicinato al calcio tanti ragazzi delle stesse favelas. È il richiamo della strada, da cui provengo, ad avermi condotto in questi posti.

 

L’Italia è in fase di declino anche nel calcio. Sono lontani i fasti degli anni 80-90, dei primi anni del 2000, perfino degli anni del mondiale tedesco. È una situazione irreversibile?

Sarebbe un argomento lunghissimo. Pur rimanendo una mèta ambita per gli investimenti stranieri, il nostro Paese paga il fatto che purtroppo “in casa” giochiamo male e i risultati si vedono. Un Paese che subisce tre governi mai eletti dai cittadini, per esempio, ne è la prova provata. Da lì, partono tutta una serie di deflagrazioni interne che arrivano fino al calcio. Difficile competere con l’Europa, con i club europei, che poi tra l’altro godono della solidità no limits di nuovi proprietari d’oltreoceano. Sarei favorevole, però, ad una internazionalizzazione delle compagini societarie con l’ingresso di nuovi investitori a stelle e strisce, o arabi o asiatici, purché si mantenga la maggioranza targata made in Italy. In caso contrario sarà difficile essere competitivi nei prossimi 15 anni.

 

Quali sono, secondo lei, i problemi principali del calcio italiano?

Oltre all’ingresso di nuove forze finanziarie, come ho detto, il calcio italiano avrebbe bisogno di riorganizzare alcuni aspetti interni; per esempio, la distribuzione dei diritti televisivi. Ma anche l’asset internazionale della nostra federazione. In Fifa, in Europa, nel mondo, spiace dirlo, contiamo poco. Spero che la cura Infantino riporti la Federcalcio ai fasti di un tempo. Perché, un tempo, il campionato più bello del mondo era proprio la nostra Serie A.

 

Parliamo di Super Lega. Lo giudica uno scenario plausibile nel breve periodo?

Le dico che a Dubai esiste un progetto per la costituzione di una Super Lega Europea, che verrebbe finanziata, quindi sarebbe di proprietà, degli stessi arabi e della Cina. Una sorta di Formula 1 del calcio. Ne sarebbe interessata anche la famiglia dei miei soci di Dubai. Credo però, che per mettere insieme gli accordi con le varie federazioni, ci vorrà ancora del tempo. Non la vedo realizzabile nell’immediato.

 

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