Da Mosul a Makhmur, in fuga dall’Isis – di Ilaria Romano e Mauro Consilvio

(Makhmur, Kurdistan Iraq) Da quando nelle ultime settimane le voci su un possibile, imminente, attacco per la liberazione di Mosul si sono intensificate, come pure i movimenti di truppe irachene nell’area controllata dai Peshmerga a sud della seconda città dell’Iraq in mano allo Stato Islamico, l’afflusso di sfollati verso Makhmur ha ricominciato a crescere. La piccola città, un tempo parte del Governatorato di Ninive e oggi di quello di Arbil, è diventata una sorta di centro urbano di confine, che a sud delimita l’area sicura da quella in mano a daesh. Ancora di più nell’ultimo mese, da quando le forze del Kurdistan hanno ripreso il controllo della vicina Koudellah, costantemente usata dall’Isis come base militare.

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Ogni notte ci sono famiglie che si muovono a piedi, sfidando le mine, per cercare di raggiungere Makhmur, e da lì il resto del Kurdistan, soprattutto dai villaggi a sud di Mosul. C’è chi affronta il viaggio da solo e chi, come Ahmed, ha deciso di partire con la moglie Medina e i loro quattro bambini piccoli. Hanno resistito fino ad oggi, finché non gli è stata distrutta anche la casa. “Prima a Mosul si viveva normalmente – racconta – io facevo il contadino e avevamo una vita tranquilla. Poi con daesh è cambiato tutto: chi non ha soldi non ha più diritto a nulla, non ci sono più servizi per noi, niente acqua né elettricità. Ci è stato anche impedito di lavorare, di vendere autonomamente i prodotti della nostra terra. E’ diventato tutto difficile: le vessazioni, le imposizioni, le minacce e le uccisioni. Io stesso ho visto ammazzare alcune persone, a mio fratello hanno tagliato la gola, e a quel punto ho capito che pure rischiando di saltare in aria per strada dovevamo tentare di andarcene”.

“Prima ci muovevamo molto, fra Arbil e Makhmur – dice la moglie Medina, che nasconde il volto perché ha ancora paura di ritorsioni contro i familiari rimasti lì – ci andavamo per lavoro, ma anche nel tempo libero. Il nostro è un piccolo villaggio ma non ci mancava nulla, ora anche la casa è solo un ricordo, visto che abbiamo lasciato solo macerie. Da quello che ho potuto vedere con i miei occhi, la maggior parte dei miliziani di daesh sono stranieri: sauditi, siriani, libanesi, tunisini, e anche europei; non saprei dire esattamente di quali paesi, ma li riconosci dai tratti somatici, dalla pelle chiara, e dal fatto che non parlano arabo. Ovviamente ci sono anche gli iracheni, gente del posto”.

Il campo vicino alla base centrale del comando Peshmerga e del Partito Democratico del Kurdistan è stato allestito in fretta con pochi container disposti in uno sterrato, a pochi passi dal centro abitato. Ci sono coperte, materassi, cibo. Ma le condizioni sanitarie sono già allarmanti, e la gente continua ad arrivare. Una squadra delle Nazioni Unite è stata qui due giorni fa, per pianificare la costruzione di una nuova area di accoglienza da affiancare a questa, visto che le identificazioni degli sfollati avvengono all’interno del campo da calcetto, perché nell’area di accoglienza lo spazio è finito.

Un gruppo di giovani, tutti fra i venti e i trent’anni, è arrivato insieme tre giorni fa e si è sistemato in un unico container. La maggior parte di loro ha molta paura di parlare, perché ha ancora dei parenti a Mosul. “Io sono un ex soldato dell’esercito iracheno – racconta Hasan, un ragazzo magrissimo in jeans e sandali – quando sono arrivati i daesh abbiamo provato a combattere ma non ne abbiamo avuto la possibilità. Non è vero che l’esercito iracheno non è un buon esercito, la verità è che non avevamo armi e munizioni a sufficienza. E’ stata una scelta politica quella di consentire a daesh di prendere Mosul, nient’altro. Se è vero che ora si sta preparando l’attacco, e ci sarà la possibilità di combattere insieme ai peshmerga, lo faremo. L’importante è che ci diano una mano”.

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Fra questi ragazzi ci sono molti ex militari, scappati perché con l’assedio dello Stato Islamico si sono trovati senza lavoro, e sono diventati vittime di rappresaglie proprio perché ex soldati. Anche secondo Hasan a Mosul ci sono parecchi stranieri nelle fila dell’Isis. “I dirigenti sono tutti stranieri – racconta – arrivano dall’Egitto, dal Libano, dall’Arabia Saudita e dall’Europa; gli altri sono locali. Tutti però non si fanno scrupoli ad uccidere civili anche per cose banali, come una sigaretta accesa per strada”.

Sua moglie e i suoi figli sono rimasti a Mosul: “non ce l’avrebbero fatta – dice – a camminare per tutta questa strada, e soprattutto il rischio di saltare su una mina è troppo alto. Meglio aspettare e sperare che l’attacco dei peshmerga e dell’esercito iracheno parta il prima possibile, e che Mosul sia liberata. E’ la nostra unica speranza di riunirci”.

“Non è del tutto vero ciò che dice l’ex soldato – confida un’altro giovane in disparte – parla così perché era nell’esercito, ma quando sono arrivati i daesh nessuno era pronto a combattere, e nessuno in città ha fatto resistenza. La maggior parte delle persone qui sono contadini, abituati a lavorare la terra, non hanno mai preso in mano un’arma. Una rivolta popolare non c’è stata, e non ci sarà. Vedremo cosa succede se verrà sferrato l’attacco. Come si vive a Mosul adesso? Se hai i soldi puoi stare tranquillo, anche con il governo dello Stato Islamico. Puoi comprare tutto quello che ti serve. Altrimenti sei finito. Io ero un impiegato statale, e da quando daesh ha preso il controllo della città e degli uffici è tutto bloccato, noi non lavoriamo più e gli stipendi non arrivano. Finiti i risparmi e abbiamo deciso di andarcene. Ora cercherò di raggiungere Arbil, dove ho dei parenti che mi possano ospitare in attesa di poter tornare a casa”.

E prima di Daesh? “Si stava male comunque – dice il giovane impiegato – si poteva lavorare ma eravamo continuamente vessati proprio dall’esercito ufficiale. Ed è per questo che lo Stato Islamico è riuscito a penetrare in città. Non si stava bene nemmeno prima, si viveva comunque nell’insicurezza e sotto attacco”.

Ogni giorno molti media locali, canali televisivi in particolare, vengono a seguire la situazione degli sfollati. Fra i giornalisti oggi c’è anche Loaan, nato e vissuto a Mosul fino all’arrivo dell’Isis, che oggi insieme al fratello videomaker realizza reportage da tutto l’Iraq. “Nella mia città facevo il medico e mio fratello l’insegnate – racconta – oggi viviamo ad Arbil e lavoriamo fra il Kurdistan e il resto del paese. Dove accadono i fatti noi andiamo a documentare cosa succede. Sono spesso a Baghdad e a Falluja, è lì che in questo momento ci sono parecchi problemi, perché oltre al contenimento dello Stato Islamico bisogna pensare anche a chi si spartisce il controllo del territorio nel fronte anti daesh. Se qui intorno a Mosul ci sono solo peshmerga, a sud sono almeno venti i gruppi che si contendono la gestione della sicurezza, fra esercito e milizie di varia provenienza. Cosa spero? Che un giorno tutto questo finisca, e si riesca ad avere una situazione stabile in questo paese”.

 

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