Dalle piazze al carcere, la repressione nell’Egitto di Al Sisi – di Ilaria Romano

Che cosa è successo in Egitto negli ultimi quattro anni e mezzo? Dove sono finite le istanze di cambiamento del 2011 nella transizione delle tre rivoluzioni? In larga maggioranza in carcere, secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, Generation Jail, Egypt’s youth go from protest to prison. Secondo gli ultimi dati diffusi dalle organizzazioni locali per i diritti umani, e in assenza di numeri precisi del ministero dell’Interno, sarebbero almeno 41mila i detenuti che stanno scontando pene legate al loro attivismo politico e sociale, molti dei quali senza nemmeno essere stati giudicati.

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Le piazze che nel 2011 avevano manifestato contro Husni Mubarak, destituito con il decisivo apporto dell’esercito, non sono riuscite a creare una forza politica unitaria in grado di contare alle urne, dove l’unica organizzazione che poteva emergere, in ragione della storia recente, era quella dei Fratelli Musulmani, che difatti vinsero le elezioni. La sconfitta per la Fratellanza è arrivata dopo, per non aver saputo adattarsi alla nuova società in transizione, cosa che ha provocato il ricompattamento dello stato intorno all’unico potere che nel paese non è mai venuto meno, quello militare.

Gli stessi militari che nel 2011 hanno accompagnato il rovesciamento del regime, nel 2012 sono venuti a patti con i Fratelli, che in caso di vittoria promettono di non processarli per le violente repressioni di piazza e di non interferire nei loro interessi economici. Nel 2013 si ergono a protettori della rivoluzione tradita da Morsi e traghettano il Paese verso il colpo di stato, apparentemente legittimato dal volere del popolo.

Le fasi politiche dell’Egitto post Mubarak sono sempre state caratterizzate da proteste di piazza: dal 25 gennaio all’11 febbraio 2011, poi contro il Consiglio Supremo delle Forze Armate da novembre dello stesso anno fino a giugno del 2012, contro Morsi e i Fratelli da novembre 2012 a luglio 2013. Con la sua destituzione da parte del capo di Stato Maggiore Abd Al Fattah Al Sisi, ex ministro della Difesa del governo Morsi ed ex membro del Consiglio Supremo delle Forze Armate, le manifestazioni sono diminuite, secondo i dati raccolti da Amnesty, perché sono aumentati gli arresti. Di attivisti, avvocati per i diritti umani, blogger, oppositori politici; ma anche semplici studenti fermati per strada perché indossavano una maglietta con uno slogan sgradito. Le proteste sono diventate la “corsia preferenziale” per il carcere, mentre le autorità hanno giustificato questo giro di vite con la volontà di ripristinare la stabilità nel paese (nonostante la gran parte dei membri delle forze di sicurezza che avevano preso parte alla repressione violenta dei manifestanti non siano mai stati processati, e nessuna commissione indipendente sia stata istituita per indagare sugli abusi compiuti in piazza e nelle celle di detenzione).

Secondo i dati diffusi da Associated Press, e basati su stime governative, nel marzo dello scorso anno i detenuti politici erano 16mila, inclusi anche 3mila esponenti dei Fratelli Musulmani. Il mese successivo i numeri sono stati aggiornati: 22mila persone in carcere. Un anno dopo le nuove stime basate sugli elenchi compilati da diverse associazioni per i diritti umani, parlano di 41 mila arrestati. Alcuni sottoposti a processo, altri accusati ma non ancora giudicati o in fermo preventivo in attesa della fine delle indagini.

L’ultima ondata di arresti è cominciata all’inizio del 2015: l’associazione Freedom for the Brave ha documentato 160 nuovi casi, solo da aprile a giugno, in cui le famiglie non hanno alcun tipo di informazione sulla condizione dei detenuti. Molti di loro sono esponenti del Movimento 6 Aprile, un gruppo di giovani nato nel 2008 per sostenere gli operai, attivo nell’organizzazione delle manifestazioni anti-Mubarak, e da lì in poi collettore di partiti civili e personaggi pubblici. Il M6A risulta oggi classificato come gruppo di spionaggio.

La legge 107 e i processi di massa

La stretta alla libertà di espressione e manifestazione del governo Al Sisi arriva nel novembre del 2013, con l’entrata in vigore della Legge 107 sulle Proteste, che autorizza arresti e processi ai dimostranti e vieta i presidi di piazza senza autorizzazione preventiva. Dà alle forze di sicurezza il potere di intervenire sui manifestanti per disperdere qualsiasi assembramento non autorizzato o ritenuto pericoloso per la sicurezza e l’ordine pubblico. Autorizza l’uso della forza, anche con personale in borghese, che in più occasioni ha adoperato manganelli, lacrimogeni, idranti e armi da fuoco. Non soltanto in caso di violenze nei confronti della persona, ma anche della proprietà. Permette al Ministero dell’Interno di cancellare le manifestazioni concordate o imporre un cambio di percorso, anche a meno di tre giorni dall’evento, o nelle precedenti 24 ore se si tratta di un sit in politico legato a campagne elettorali. Vieta i presidi in una serie di aree considerate off limits come i palazzi del governo, del parlamento, i ministeri, le ambasciate, gli ospedali, le carceri, le stazioni di polizia, le zone militari, i siti archeologici, i luoghi di culto. Prevede condanne fino a cinque anni di carcere e multe fino a 13 mila dollari.

I processi collettivi sono diventati una caratteristica del sistema giudiziario egiziano, in alcuni casi istituiti soltanto sulla base dei resoconti delle forze di polizia, prima che le indagini portino a stabilire se le accuse siano o meno fondate. Gli avvocati della difesa hanno più volte denunciato ad Amnesty International di non avere accesso agli atti, e di non essere convocati alle udienze, spesso anticipate proprio per impedire ai legali di parteciparvi.

Alcuni casi

Il rapporto si concentra in particolare su 14 casi, fra le migliaia di arrestati. Alcuni già noti anche all’estero, come Alaa Abd El Fattah, attivista e blogger, che sta scontando una condanna a cinque anni per una manifestazione del 2013, dopo essere già stato in carcere nel 2006, durante il regime di Mubarak, e poi di nuovo per le proteste del 2011. O come pure Ahmed Maher, del Movimento 6 aprile, arrestato per aver preso parte ad un sit in non autorizzato per chiedere proprio la liberazione di El Fattah, che è stato accusato di aver preso parte agli scontri davanti al Palazzo di Giustizia, anche se i suoi avvocati hanno dichiarato che si trovasse all’interno in quel momento.

Mohamed Adel, anche lui del 6 Aprile, arrestato durante un controllo nel Egyptian Center for Economic and Social Rights in cui faceva il volontario. Gli avvocati hanno raccontato che al momento del fermo è stato picchiato e poi per i successivi quattro giorni, fino al processo, nessuno ha più saputo nulla di lui. Diversi testimoni hanno dichiarato che non aveva mai preso parte a manifestazioni né era mai stato coinvolto in episodi di violenza. Eppure, come Maher, è stato condannato a tre anni di carcere e al pagamento di una multa di 6 mila e 500 dollari per manifestazione non autorizzata, attacchi alle forze di sicurezza, devastazione di proprietà e disturbo dell’ordine pubblico.

Ahmed Douma, attivista e blogger, oltre ai tre anni per manifestazione non autorizzata, è stato condannato anche a 25 anni per le manifestazioni del 2011, e ad una multa da due milioni di dollari. Con lui altri 229 manifestanti hanno ricevuto la stessa condanna, ridotta a dieci anni nei casi di minorenni.

Yara Sallam, attivista 29enne, e Sanaa Ahmed Seif, film-maker di 21 anni, si trovano in carcere dopo essere state arrestate durante una manifestazione nel mese di giugno dell’anno scorso. Gli avvocati di Yara hanno riferito di interrogatori senza la loro presenza. Entrambe le ragazze sono state condannate a tre anni per manifestazione non autorizzata, danneggiamento alla proprietà, disturbo dell’ordine pubblico. La condanna è stata poi ridotta a due anni in appello.

Oltre ai casi, più numerosi, di giovani coinvolti nell’attivismo politico e sociale, Amnesty ne ha documentati altri in cui gli arrestati non avevano mai avuto un ruolo attivo nell’opposizione o nella denuncia di violazioni da parte del governo. Mahmoud Mohamed Ahmed Hussein aveva 18 anni quando venne arrestato, il 25 gennaio del 2014, poco lontano da casa, nei pressi di una manifestazione a sostegno dei Fratelli Musulmani. Ancora oggi, ad un anno e mezzo di distanza, è detenuto senza mai essere stato processato e senza che sia stata formulata un’accusa nei suoi confronti. Fermato dalle forze di polizia perché indossava una maglietta con uno slogan contro la tortura, ed una sciarpa con il logo della rivoluzione del 25 gennaio 2011. Secondo quanto riferito dai suoi familiari, ha confessato sotto tortura il coinvolgimento in presunte azioni terroristiche, il possesso di materiale esplosivo e la presenza in manifestazioni non autorizzate dietro pagamento di denaro. I parenti che lo hanno visitato in carcere hanno confermato i segni di abusi, e hanno denunciato che si trova in una struttura detentiva vicino al Cairo, in una cella che divide con altri 40 detenuti.

Il Codice di Procedura penale prevede che le autorità possano trattenere sulla base del sospetto di reato, per un periodo indefinito. L’articolo 137 permette alla pubblica accusa di sottoporre al carcere preventivo il sospetto mentre si svolgono le indagini, per un massimo di 45 giorni prorogabili fino a due anni, se il caso è soggetto a revisione. “Attaccando i giovani – dice Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa – le autorità stanno spezzando le speranze di un’intera generazione. E i leader globali si stanno rimangiando le promesse fatte dopo la caduta di Mubarak”. Come Amnesty continua a denunciare, i leader di Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna e Usa hanno avuto e continuano ad avere rapporti con il presidente Al Sisi, mentre migliaia di persone sono in carcere per reati di opinione, senza che sia mai stato sollecitato un intervento in merito.

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