Congo, oltre un secolo di saccheggi – recensione di Massimiliano Manganelli

 

Nel nostro immaginario di occidentali Congo vuol dire Africa, o perlomeno Africa nera: l’identità è pressoché assoluta. Dal fiume Congo – che possiede il secondo bacino idrografico più grande del mondo, coincidente all’incirca con lo Stato al quale dà il nome – sembra che abbia inizio il nostro contatto con quel mondo. Per rendersene conto basta andare a rileggersi Cuore di tenebra di Conrad o, più semplicemente, l’incipit del corposo libro di David Van Reybrouck, intitolato semplicemente Congo (ma con un sottotitolo tanto significativo quanto misteriosamente scomparso nell’edizione italiana di Feltrinelli: Een geschiedenis, cioè Una storia), un incipit dal sapore quasi epico che chiama in causa proprio quel “brodo giallastro, ocra, ruggine”, ovvero la corrente di un fiume capace di cambiare il colore dell’oceano per chilometri e chilometri. È un libro, questo di Van Reybrouck, che è al contempo un gigantesco reportage, ricco di incontri e di aneddoti talvolta terribili, e un saggio storico, dove tuttavia il tono è sempre quello del grande narratore.

cover congoDopo il colloquio iniziale con Papa Nkasi, nato addirittura nel 1882, che incarna dunque letteralmente la storia del Paese, la narrazione muove, lungo quindici capitoli, dalla prima colonizzazione belga, quello Stato Libero del Congo, proprietà privata del re Leopoldo II, che Van Reybrouck non esita a definire “una porcheria immonda”, per giungere a tempi più prossimi a noi (il racconto si ferma al 2010), pochi anni dopo la conclusione della disastrosa seconda guerra del Congo. In mezzo ci sono molte cose: uno sfruttamento coloniale tra i più feroci di sempre (avorio e gomma ne costituirono i capisaldi); la partecipazione della Force publique alle due guerre mondiali (nella seconda diede un grosso contributo alla liberazione dell’Etiopia); il memorabile 30 giugno del 1960, giorno dell’indipendenza, quando al re belga Baldovino fu sottratta la spada. E poi ancora la crisi del Katanga; i trentadue anni di regime di Mobutu, che ebbero quale conseguenza la riscoperta dell’authenticité africana e il lancio della zairizzazione (il Congo si chiamò Zaire dal 1971 al 1997); il celebre match tra George Foreman e Muhammad Ali; il nuovo regime di Kabila padre; le due guerre del Congo…

Più ci si addentra nelle pagine di questo libro, che assomiglia un po’ a quella foresta pluviale che occupa una parte consistente del Paese, più ci si accorge che se Congo vuol dire Africa, allora vale anche il contrario. Il Congo, infatti, in tutte le sue declinazioni, sembra riassumere in sé, quasi in forma di emblema, il destino, almeno quello più recente, a partire dalla colonizzazione europea, dell’Africa intera. Ciò che è successo al Congo e in Congo è successo in tutta l’Africa, anche se probabilmente non esiste un altro Paese al mondo tanto ricco e tanto depredato, che in oltre un secolo non ha perso alcuna attrattiva agli occhi di chi lo vuole sfruttare: a partire dalla gomma, su cui si fondarono le fortune dei belgi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, per arrivare al coltan, richiestissimo oggi nell’epoca dei cellulari e dei computer. E non è un caso che da svariati anni, almeno da quando è al potere Joseph Kabila, la Cina abbia messo gli occhi sul Congo.

Van Reybrouck non manca, ovviamente, di parlare della corruzione e dei continui colpi di stato. A questo proposito, resta emblematica la vicenda di Patrice Lumumba, uno dei padri della decolonizzazione, autore di un memorabile discorso dell’indipendenza, a lungo l’unico politico democraticamente eletto in Congo, la cui fulminea carriera politica si concluse con un assassinio (sorte toccata anche ad altri padri dell’indipendenza). E c’è, appunto, la violenza. Quella del regime di Mobutu, che dopo aver contribuito a farlo ammazzare, fece di Lumumba un eroe nazionale; ma soprattutto la violenza che trova ragioni nella dimensione tribale e multietnica del Paese, sulla quale hanno sempre soffiato con forza, sin dai tempi della “guerra fredda”, le potenze occidentali, ognuna interessata a usare il Congo come pedina di un gioco globale.

E non è un caso che l’ex Zaire – nome scaturito dalla volontà di riappropriarsi dell’authenticité, ma in realtà frutto di un errore di interpretazione – sia stato al centro della cosiddetta Grande Guerra Africana (nota soprattutto come seconda guerra del Congo), che alcuni hanno voluto battezzare con il nome di guerra mondiale africana, perché ha coinvolto otto Paesi del continente in un conflitto che ha lasciato sul terreno circa quattro milioni di morti. Una sorta di lotta “tutti contro tutti”, abbastanza frequente in Africa, poco seguita delle cronache occidentali, perché l’Africa, lo sappiamo, non fa notizia: le pagine del libro nelle quali si raccontano le violenze, le torture, i massacri, gli stupri sono atroci, da incubo.

Proprio per questo Congo è un libro necessario e “definitivo”, scritto con l’intento, lo dice esplicitamente Van Reybrouck nel capitolo conclusivo, di togliere al Paese, così ricco di materie prime, la mera funzione di “dispensa del mondo” e restituirgli non solo la propria storia, ma – soprattutto – il ruolo che ha esercitato nella Storia. Che in questa impresa si sia cimentato un belga suona come una sorta di risarcimento, sia pure tardivo.

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