“Italiani” – Il nostro viaggio arriva a Granada, in Spagna – dove la partecipazione fa la differenza.

Virginia Negro ha 27 anni, parla tre lingue straniere. Una laurea in semiotica presa in Italia, un master in Francia poi un’esperienza di un anno in una Ong a Malaga. Ha provato a rientrare in Italia per lavorare. Potrebbe sembrare  semplice, per una persona preparata e motivata, ma non lo è.

Così ha deciso di rimettersi in viaggio, questa volta in direzione Granada. Ci ha raccontato la sua storia.

A cura di Maria Camilla Brunetti.

“Ho studiato Discipline semiotiche a Bologna, con un intermezzo di 18 mesi a Paris 8 dove ho frequentato un Master in Comunicazione e media sognando il giornalismo. Mi sono mantenuta agli studi lavorando come ragazza alla pari in Francia. Sono riuscita a laurearmi in tempo, e, tornata in Italia dopo l’esperienza in Francia, pensavo di riuscire a capitalizzare i miei interessi, i miei studi e, perché no, anche la conoscenza delle lingue (parlo inglese, francese e spagnolo). Non ho mai pensato alla ricerca in Italia perché mi è sempre sembrato un mondo molto chiuso, e, in tutta onestà, anche clientelare. Così appena laureata ho colto l’occasione per andare a Malaga a lavorare in una ONG che si occupava di intercambi e progetti europei. Dopo un anno sono tornata in Italia, a Roma, dove ho iniziato uno stage retribuito in una casa editrice di recente formazione: L’orma editore, di cui vi siete occupati anche voi recensendo l’ultimo libro del giornalista tedesco Guenter Wallraff. https://www.ilreportage.eu/2012/10/una-faccia-sotto-copertura-notizie-dal-migliore-dei-mondi-di-gunter-wallraff/

L’esperienza lavorativa non poteva essere migliore dal punto di vista umano e professionale, ma comunque all’insegna della precarietàDa qui la scelta di partire. Direzione Spagna.

Granada è arrivata dopo avere vinto una borsa di studio con un progetto di ricerca incentrato su media e donne migranti. In realtà quindi la decisione di trasferirmi è legata nuovamente all’ambito universitario. Intanto però sto cercando di continuare a scrivere di movimenti sociali e new media sul mio blog: http://pucherourbano.wordpress.com/, e continuo a collaborare anche con la casa editrice in cui avevo fatto il tirocinio.
Da un punto di vista economico e sociale la Spagna credo sia un paese più sostenibile dell’Italia, dove alla crisi si aggiunge un costo della vita molto alto. Da un punto di vista professionale la situazione è molto difficile anche qui, ma c’è l’attitudine a fare rete, i prezzi sono sensibilmente più bassi e l’offerta culturale, i servizi in genere, sono migliori che in Italia.

In Italia c’è rassegnazione anche nella nostra generazione che è, tra quelle socialmente e lavorativamente “attive”, la più giovane. Una rassegnazione virale ed endemica, che peggiora di molto la qualità di vita. In più le piccole/medie città italiane offrono sempre meno e le grandi realtà sono difficilmente accessibili: Roma e Milano hanno affitti insostenibili, sono carissime. Qui, in Spagna, la partecipazione fa la differenza, la gente reagisce e questo, anche solo psicologicamente, ha un impatto forte sul quotidiano individuale.

Spero che qui, come in Italia, si continuino sempre a cercare modelli di vita e di lavoro più sostenibili. Anche in Italia esistono persone e realtà molto dinamiche, penso per esempio al Festival Festarch http://www.abitare.it/festarch-2012/ , oppure anche l’Orma editore http://www.lormaeditore.it/ e ci sono anche movimenti sociali attivi. Il problema italiano, a mio avviso, è che si tende a non fare rete, a non conoscere realtà simili e quindi a non uscire da un provincialismo limitante. Purtroppo è anche vero che questi piccoli universi sono poco rappresentati mediaticamente, vengono polemizzati ma non ascoltati: si veda il caso di Macao http://www.macao.mi.it/ , se n’è parlato come di un problema ma mai come di una risorsa, come un esempio di reazione ad uno status quo, un atto di sana volontà costruttiva.

Nel futuro vedo ancora grande mobilità, necessità di spostarsi come unica possibilità di costruirsi la propria carriera. Si ha a disposizione il mondo, ma troppo spesso non si hanno possibilità di scelta. Aggiungere alla precarietà economica anche il nomadismo, a volte, può essere molto stancante. Questa generazione di migranti diprima classesta cambiando il mondo. Anche se, per il momento, ancora silenziosamente…”
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È giovane, 27 anni, ma ha le idee chiare, Kristina Babusci, fotografa ribelle, “bartender”, che pochi giorni fa ha deciso di lasciare Roma e partire per Londra. Se le chiedi di dire qualcosa di sé, così, liberamente, senza il vincolo di una domanda, prima ancora che abbia inizio l’intervista vera e propria, come se fosse un test freudiano, risponde sbarazzina: “I’m Kristina Babusci. I love sun, Jägermeister and techno music”. Poi commenta: “Uhm, non è molto professionale, vero?”.

Kristina, ti sei trasferita a Londra poche settimane fa. Vivevi e lavoravi a Roma. Perché questa scelta? Ci pensavi da tempo o è stata una decisione improvvisa?

Penso che a molti, prima o poi, venga voglia di mollare tutto e andare via per un po’. È una fase della vita. Io la sto vivendo adesso. Sono nata e cresciuta a Roma e, salvo brevi parentesi a Milano e in Sardegna, ho trascorso la mia vita in una delle città più belle e incasinate del mondo, Roma appunto. L’idea di trasferirmi per un po’ a Londra mi balenava per la testa da tempo, così quattro giorni prima del 21 settembre ho deciso di fare il biglietto e partire.

Che cosa cerchi o speri di trovare a Londra come persona e come professionista?

Niente curriculum tradotto in inglese, né certificati di laurea e diplomi vari, e neanche una vera e propria svolta lavorativa. Sono partita esclusivamente per fare un’esperienza, per conoscermi, confrontarmi e vedere anche un po’ come me la cavo… tutto quello che verrà sarà un di più. Voglio dire che non credo di essere portata per una vita “normale” e per normale intendo la ricerca di una stabilità lavorativa e affettiva, più vado avanti e più mi accorgo che non riesco davvero a ritrovarmi in quelle situazioni che possiamo definire ordinarie. Anche se invidio tantissimo coloro che vivono così.

Il primo approccio con la nuova città com’è stato?

Londra la conosco come le mie tasche, è stata la meta delle mie vacanze estive per quattro anni e ogni volta che ci torno è sempre come l’ho lasciata. L’evolversi degli eventi, pertaltro, mi ha portato dopo soli quattro giorni a spostarmi a Brighton e devo dire che questa piccola città mi ha letteralmente folgorato! È una città a misura d’uomo, che puoi girare benissimo a piedi, piena di locali e vita notturna, vicoli dove ci sono negozi caratteristici, street art ovunque e poi è sul mare… Credo che mi fermerò qui per un po’!

Roma, per una giovane fotografa come te, che tipo di piazza è? Facile, difficile?

Non mi definisco una fotografa, forse prima, quando quello era a tutti gli effetti il mio lavoro, ora mi definisco semplicemente Kristina. Non mi ci vedo proprio come fotografa, non riesco a stare dietro le richieste del cliente, non mi piace scattare in digitale, non mi piace usare photoshop. Insomma, fotografo quello che voglio io, come voglio io e con i miei tempi. Credo che tra “fare delle foto” ed essere “un fotografo” ci sia davvero una grande differenza! Non so davvero definire che tipo di piazza sia Roma. A 22 anni quando ho iniziato a studiare fotografia avevo una carica e una motivazione che mi ha portato già dopo un anno a fotografare le sfilate ed avere le prime pubblicazioni su giornali nazionali. Credo comunque, come in tutti i campi, che se hai volontà, pazienza, se conosci la tecnica e ci metti un pizzico del tuo arrivo a raggiungere il tuo obiettivo.

Come e quando è nata la tua passione per la fotografia? Ci dici il nome di qualche tuo fotografo di riferimento?

Secondo semestre del secondo anno di università, durante la prima lezione del corso di “Fotografia di moda” mentre il professore proiettava le foto di Helmut Newton ho deciso che volevo anche io fare foto. Wendy Bevan ed Ellen Rogers sono le mie fotografe preferite.

Secondo te, quali sono gli ingredienti della fotografia perfetta? Ne esiste una?

Non ne ho la più pallida idea, bisognerebbe chiederlo a un professionista dell’immagine. Io sono un’istintiva, una che scatta anche con macchine giocattolo o con usa e getta, che non si sofferma troppo sulla perfetta esposizione, sui megapixel o sulla posizione della modella… Scatto quello che vedo e che mi piace senza stare lì a pensarci troppo.

Qual è la tua opera d’arte preferita?

In quella Roma silenziosa delle cinque del mattino era molto facile trovarmi su un muretto davanti al Colosseo a bere una birra in completa solitudine. Per me resta uno di quei posti magici e positivi che mi regala la tranquillità e la spensieratezza di cui ho bisogno.

Che genere di musica ascolti?

Tutta, ma ballo la techno!

Leggi?

Vorrei avere molto più tempo libero per farlo, adoro le biografie e la scrittura di Erri De Luca.

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 “Se devo dire qual è la grande differenza tra lʼItalia e lʼestero in generale, credo direi proprio che è la rapidità. Qui a Valencia le cose succedono senza angoscia, con tempi ragionevoli e si riacquista quella speranza nel futuro che lʼItalia ci aveva negato. La grande differenza tra qui e lì, oltre al “rapidamente” (qui non esistono cose come la linea C della metropolitana di Roma, o la Salerno Reggio Calabria) è la freschezza democratica.”

– A cura di Maria Camilla Brunetti.

 

 

Salvatore Conte, Salvo, è siciliano, ha 32 anniDal 2006 ha deciso di vivere con il suo compagno a Valencia, in Spagna. Da quando ha deciso di lasciare l’Italia nella sua vita sono cambiate molte cose. Ha aperto due ristoranti di cibo italianosi è sposatoè riuscito a comprare casa, ha viaggiato. Perché ha deciso di trasferirsi? Le motivazioni sono molteplici, complesse ma – a ben vedere – estremamente semplici. Le ascoltiamo dalla sua voce.

“Sono nato a Catania alle pendici dellʼEtna. Dopo aver frequentato il liceo classico nella città di Bellini e Pippo Baudo mi sono trasferito a Bologna e sotto il manto protettore dellʼAlma Laurea mi sono laureato per ben due volte al DAMS. Due volte, perché il governo di allora aveva pensato bene di dividere un inutile corso di laurea in due parti: la laurea vera e propria e la specialistica: totale 5 anni, 1 anno in Erasmus a Canterbury (UK). Molti amici, molto teatro, tantissimo cinema, viaggi per lʼEuropa ma poco lavoro. La proposta più interessante che mi fecero fu lavorare alla Mostra del cinema di Venezia.

Sì, ero bravo, avevo preso 110 e lode, ed ero stato selezionato nella mia classe (prima specialistica di Cinema in Italia, quindi cose grosse) e dovevo andare a Lido a fare di tutto un po’. Bello, si potrebbe pensare, peccato che il “contratto” di “lavoro” non prevedeva nessuno stipendionessun rimborso: neppure un panino e un posto dove dormire a Venezia. Dovevo pagare tutto io. Venendo da una famiglia di classe operaia, pensai bene di non chiedere soldi ai miei per potere andare a lavorare e decisi di rifiutare e di non aggiungere nessuna linea al mio immacolato curriculum.

Lavorare gratis sì, potevo anche farlo almeno agli inizi, ma solo a Bologna, questo era il patto: così collaborai con lʼArchivio Pasolini della Cineteca di Bologna.

Cucinare è sempre stato il mio forte e nonostante non mi pagassero riuscivo a nutrirmi molto bene archiviando vecchi VHS della Laura Betti e cucinando autentiche delizie in casa con prodotti a buon prezzo (ma bio, ed erano gli anni ‘90, ancora non era tanto di moda).
La recente storia dʼItalia la conosciamo benissimo, Berlusconi per venti anni intervallato da un Prodi pacioccone e simpatico quanto poco incisivo.

Lʼidea di trasferirsi altrove si faceva ogni giorno più pressante. In quegli anni viaggia a Londra, Berlino (ryanair e low cost) e in qualsiasi posto andassi avevo lʼimpressione che sarebbe stato meglio vivere lì, piuttosto che a Bologna. La goccia che fece traboccare il vaso fu Sergio Cofferati. Lui, sindacalista con barba, con un discorso super di sinistra si era candidato a sindaco della mia città. Vivevo in via dei Coltelli con il mio compagno, sopra il bar di Miki e Max, un classico di Bologna, uno di quei bar con anima, alla buona per carità ma con anima. E Sergio venne lì, sotto casa mia, nel bar dove facevo colazione e parlava chiaro, diceva cose di sinistra e ti guardava negli occhi.

Elezioni vinte, festa in piazza, musica, fuochi dʼartificio e beh, sappiamo tutti comʼè andata a finire. Sempre in quegli anni la Spagna aveva approvato il matrimonio gay (per meglio dire, aveva universalizzato un diritto cambiando la costituzione, roba di una parola… dove cʼera scritto uomo e donna avevano scritto cittadini), ma la cosa che mi spinse a fare le valigie fu la dichiarazione del neo eletto presidente Niki Vendola. Non so se tutti lo ricordano, ma aveva appena stravinto le elezioni contro Fitto, orecchino, apertamente gay e comunista, beh lui disse che in Italia non eravamo ancora pronti per il matrimonio gay.

LʼItalia non era prontama io , ed ero abbastanza stanco di pagare 753€ al mese per una bettola di casa. Ero stanco di Cofferati che si era trasformato in uno sherif, mi sconvolgevano le affermazioni di Vendola, non ne potevo più di cercare un posto auto in centro. Ma Vendola e Cofferati erano amici in realtà, figuriamoci quello che mi provocava il Presidente del Milan, quel palazzinaro milanese mi aveva letteralmente provocato un orticaria permanente, era ora di partire, aprire la mappa dellʼEuropa e decidere dove andare. Aprendo la mappa dellʼEuropa cʼera solo una grande decisione da prendere: freddo o caldo?

Se la scelta era la seconda, come nel nostro caso (io e Emiliano per intenderci) in quel momento non esisteva destinazione migliore che la Spagna di Zapatero. Quellʼometto che tutti scambiavano per Mr. Bean ci ha cambiato la vita. Siamo arrivati in Spagna, a Valencia, alla fine di aprile del 2006. Abbiamo affittato una casa di 150 metri quadrati (con terrazza, ovviamente) che dividevamo con un ragazzo francese, e tutto è successo rapidamente.

Se devo dire qual è la grande differenza tra lʼItalia e lʼestero in generale, credo direi proprio che è la rapiditàLe cose succedono senza angoscia, con tempi ragionevoli e si riacquista quella speranza nel futuro che lʼItalia cʼaveva negato. Ho cambiato molti lavori, ho imparato a muovermi per le strade della mia nuova città. Rapidamente anche la città è cambiata sotto i nostri occhi. Quando siamo arrivati lʼaereoporto era piccolino, adesso è tre volte più grande. Cʼerano solo due linee di metro e ora ce ne sono cinque.

Dopo una serie di case ci siamo trasferiti a Ruzafa, il quartiere moderno della città, un’ oasi di idee e di miscuglio culturale: arabi, europei in cerca di sole, artisti, localini alla moda. Ho aperto il mio primo negozio di cibo italiano da asporto nel 2008 dopo aver fatto una trafila burocratica in una stanza, della durata di un’ora, sì, un’ ora. Con il mio socio ci alzavamo da una scrivania allʼaltra dellʼedificio in vetro e acciaio e firmavamo carte, fornivamo dati e alla fine, come per magia eravamo pronti per aprire. Abbiamo aperto il secondo negozio due anni faabbiamo comprato casalʼabbiamo ristrutturatasiamo stati in Giappone, in Americasiamo stati al mare

Io e Emiliano stiamo insieme da dieci anniDecidere di sposarci è stata la cosa più normale di questo mondo. Eravamo già sposati in un certo senso, volevamo solo renderlo pubblico e rivendicare nella società che ci siamoLa cosa che più fa male è che il nostro matrimonio ha valore in moltissimi paesi del mondo tranne a casa nostra. Per permetterci di sposarci l’amministrazione spagnola ha fatto uno strappo alle regole e non ci ha chiesto il certificato congiunto di stato civile… vamos… le pubblicazioni. Quando abbiamo chiamato il consolato ci hanno risposto che non essendo previsto non iniziavano neppure la pratica… E qui con due semplici certificati di stato civile hanno fatto tutto coprendo l’orrendo buco nero italiano in materia di diritti civili.

Seguo giornalmente le notizie dellʼItalia e leggo le notizie che riguardano lʼItalia sulla stampa spagnola. La grande differenza tra qui e lì, oltre al “rapidamente” (qui non esistono cose come la linea C del metro di Roma, o la Salerno Reggio Calabria) è la freschezza democratica. La Spagna, si legge nei giornali italiani, è messa peggio dellʼItalia, ha una disoccupazione spaventosa e sembra prossimo il “rescate” de la comunità europea…

Il presidente della regione dove vivo, è stato accusato di corruzione e costretto a dimettersi: insomma tutto il mondo è paese. No! La freschezza democratica di cui parlavo è la vera differenzaIn questo paese la gente scende in piazza, il presidente della regione si è dovuto dimettere, e la trama di corruzione nella quale era coinvolto era un regalo di 10 vestiti per un valore di 10mila euro, una cosa ridicola per gli standard italiani.

Detto questo, non mi sento anti italiano, né tanto meno amante della Spagna. Anche qui, nonostante le differenze, si respira quellʼaria “mediterranea” di crisi, mancanza di lavoro e poca etica politica, ma adesso questa è la mia casa.

Posti preferiti: il mio posto preferito è Madrid! Un’ ora e 13 minuti di alta velocità e sei in una delle capitali più frizzanti dʼEuropa”.

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Ovunque guardassi scorgevo opportunità e voglia di mettersi in gioco, cose di cui in Italia mi ero quasi dimenticato l’esistenza”.

È per questo che Matteo Telara, trentasettenne, viareggino, una laurea in Lettere Moderne, una volta giunto a Auckland (Nuova Zelanda) decide di fermarsi. A quel punto scopre un paese dove tutto è possibile, poiché conta quello che sai fare e quanto bene lo sai fare, non chi conosci o da chi sei stato raccomandato: “Nepotismo, baronismo, immobilità sociale, assenza di prospettive, tutte quante le malattie del Sistema Italia, qui non solo non esistono ma neppure sarebbero concepibili”.
Matteo s’innamora di una ragazza neozelandese, ha un figlio. Nel frattempo, dopo vari impieghi, ottiene una cattedra presso la scuola locale della Società italiana Dante Alighieri e insegna italiano. Pare una fiaba, venata soltanto da un pizzico di nostalgia. La lasciamo raccontare a lui.

“Quando sono arrivato ad Auckland alla fine del 2005 ciò che sapevo della Nuova Zelanda non divergeva poi molto da quell’immagine di terra lontanissima e misteriosa a cui tutt’ora siamo abituati in Italia. Mi ero laureato in Lettere all’inizio del 2003 e avevo trovato lavoro in una piccola casa editrice, ma dopo un anno e mezzo di ritmi di lavoro estenuanti e mal retribuiti avevo cominciato a realizzare che in Italia i margini di futuro per quelli della mia generazione si stavano restringendo. Facendo surf da onda mi era capitato spesso d’imbattermi in storie e immagini legate alla Nuova Zelanda, e l’American’s Cup aveva contribuito a nutrire la mia curosità. Sapevo che c’erano ottime onde, che il Paese era sviluppato e che non era difficile trovare lavoro. Mi sono bastati questi tre ingredienti. La mia intenzione era restarci per pochi mesi, giusto il tempo di disintossicarmi dall’entropia italiana e rinfrescarmi idee e cervello. In realtà, a parte una breve parentesi tra l’inizio del 2010 e la fine del 2011, qui ho trovato quella che viene chiamata la mia casa lontano da casa.

Ho cominciato lavorando nei bar e nei ristoranti. Ma ovunque guardassi scorgevo opportunità e voglia di mettersi in gioco, cose di cui in Italia mi ero quasi dimenticato l’esistenza. Dopo qualche mese mi sono accorto d’essere a mio agio: vivevo in una bella casa, in un bel quartiere, avevo incontrato una ragazza (la mia attuale compagna, con cui ho da poco avuto un figlio) e avevo trovato un perfetto equilibrio tra surf, lavoro e spirito d’avventura. Ma soprattutto riuscivo a guardare al futuro con rinnovato entusiasmo. Infine sono diventato uno degli insegnanti della Società Dante Alighieri di Auckland, una bella realtà, molto attiva nel promuovere la cultura italiana in tutte le sue sfacettature: lingua, cinema, letteratura, arte, cucina, musica…

La realtà neozelandese è molto differente da quella italiana, anche se entrambe le culture hanno in comune l’amore per uno stile di vita all’aria aperta. Morfologicamente la Nuova Zelanda è simile all’Italia: circondata dal mare (in questo caso l’oceano) e con catene montuose paragonabili alle nostre Alpi (la cima più alta, Monte Cook, è a 3.754 metri sul livello del mare) e quindi con bellissime e immacolate spiagge da una parte e stazioni sciistiche dall’altra. La cucina è legata prevalentemente al pesce e alla carne, con grande abbondanza di verdura e di frutta. Il clima è temperato.

Le differenze hanno a che vedere con tutto quello da cui vorremmo fuggire in Italia: mancanza di corruzione, economia in grande salute e in piena espansione, molto spazio lasciato ai giovani, libertà di stampa, alto livello d’alfabetizzazione, scarsa burocrazia e grande rispetto dell’ambiente. Auckland, ad esempio, che è una città da un milione e mezzo di abitanti, è al terzo posto nel mondo per la qualità della vita e al tredicesimotra le città più verdi del mondo.

Quello che più mi ha colpito è stato in primo luogo la presenza costante e travolgente (anche in città) della natura. La Nuova Zelanda è fiera del suo status di “nuclear free country” ed è ricoperta da immensi pascoli e foreste alle spalle delle quali si trovano spesso laghi, baie e spiagge in buona parte ancora incontaminati. Si tratta di un ecosistema senza uguali dove il 30 per cento del territorio è protetto. Essere di nuovo a contatto con tanto verde è stata una delle ragioni che mi hanno fatto innamorare di questo Paese. Ma la Nuova Zelanda è anche urbanizzata, e città come Auckland sono perennamente attraversate da un’energia vibrante colma di possibilità e aspettative. Questa è la seconda cosa che mi ha colpito: vivere in un Paese dove tutto è possibile e dove conta quello che sai fare e quanto bene lo sai fare, non chi conosci o da chi sei stato raccomandato. Nepotismo, baronismo, immobilità sociale, assenza di prospettive, tutte quante le malattie del Sistema Italia, insomma, qui non solo non esistono ma neppure sarebbero concepibili.

L’Italia è in genere molto amata, soprattutto in virtù del suo clima, della sua storia e delle sue città d’arte. Ma al di là di questo l’idea che si ha del Belpaese (qui come oramai ovunque all’estero purtroppo) è di una nazione alla deriva, non solo economicamente ma anche moralmente, con una classe politica godereccia, strafottente e corrotta, e con una società incapace di rifiutarla e quindi di rinnovarsi.

I miei studenti, ad esempio, non riescono a capire come sia possibile che la maggior parte dei politici italiani coinvolti negli arcinoti scandali degli ultimi anni abbiano ancora un seguito e continuino a far parte della scena politica e televisiva (ultima la Minetti, che ha sfilato tra gli applausi a Milano, ma anche Berlusconi). Qui basterebbe molto meno per perdere la fiducia della gente e quindi essere costretti ad abbandonare per sempre i riflettori.

Un’altra importante differenza è l’idea, che qui si ha, che nella vita ognuno abbia la sua chance conclusa la quale si debba lasciare il posto ad altri. Per fare un esempio è impensabile che un Primo Ministro resti in carica oltre due mandati, diversamente da quanto avviene in Italia dove abbiamo casi quali Andreotti (7 volte Presidente del consiglio, 8 ministro della Difesa, 5 agli Esteri etc etc…) o Berlusconi  (3 volte Presidente del consiglio e con l’intenzione di ricandidarsi alle prossime elezioni) che la dicono lunga sulla ragione per cui il Paese sia ingolfato e le nuove generazioni siano costrette a emigrare per trovare spazi.

Poi mi ha colpito la flessibilità sul lavoro (è normale cambiare molti mestieri durante la propria vita), il rispetto dei rapporti umani e la propensione a guardare sempre avanti e credere nella forza dei propri sogni. Ecco, sarà una frase fatta, ma forse in Italia la gente non sogna più. Questo è quello che più mi fa male quando ci penso.

Io non credo che fossi alla ricerca di nulla in particolare, ma alla fine mi sono ritrovato in un posto unico al mondo, uno dei pochi in cui sia ancora permesso sognare e vivere il proprio sogno. Dirò una banalità, ma più ci rifletto e più realizzo che ‘vivere il sogno’ e quindi non accettarne l’assenza (come avviene in Italia a molti della mia età) sia stato quello che mi ha condotto qui.

Ma come per tutti gli emigranti ci sono molte cose che mi mancano. Una su tutte, la principale, è la famiglia: i miei genitori, mia sorella e la mia nipotina. Anche gli amici naturalmente, ma con gli amici certe dinamiche funzionano in maniera differente e quindi è facile tenersi in contatto e sentirsi vicini anche nella lontananza… La famiglia invece è una di quelle cose che mi hanno fatto spesso  prendere in considerazione l’idea di tornare in Italia.  Alle volte osservo mio figlio, che ha doppia nazionalità (italiana e neozelandese) è penso che, forse, davvero, il futuro stia tutto lì: nella totale e incondizionata possibilità che un giorno avrà di scegliere su quale lato del mondo stare”.

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A cura di Maria Camilla Brunetti

Il nostro viaggio alla ricerca dei giovani “Italiani” che hanno scelto di lasciare il nostro paese continua. Siamo arrivati a Berlino, città multietnica in grande espansione, che ha attirato negli ultimi dieci anni moltissimi ragazzi. Arrivano qui da Spagna, Portogallo, Sud America, Italia, Stati Uniti, attirati da un costo della vita relativamente basso e da una realtà che sta diventando sempre di più il posto in cui le cose possono succedere. Una città che da spazio alla creatività e alle professionalità, che premia i progetti e il desiderio di realizzarli.

 

Camilla Fabbri ha 32 anni, da 8 vive a Berlino. L’abbiamo incontrata. Ci ha raccontato la sua storia.

Mi parli un po’ della tua formazione, nel momento in cui hai deciso di lasciare l’Italia.
Dove vivevi, che cosa hai studiato, dove hai fatto l’Università, quali erano i tuoi progetti futuri.

Prima di lasciare l’Italia, alla fine dell’estate del 2004, vivevo a Bologna; città in cui mi ero trasferita sei anni prima per studiare Lettere Moderne. A Bologna facevo la cosiddetta “settimana corta”: quasi ogni finesettimana tornavo a Riccione, il luogo in cui sono cresciuta. Mi ero laureata da nove mesi ed ero ancora indecisa su che cosa fare della mia laurea e soprattutto del mio futuro.

Quando e perché hai deciso di partire? Quali sono state le tue motivazioni.
Erano solo esigenze personali o c’erano anche fattori culturali/politici/sociali nei quali non ti  riconoscevi o non approvavi?

Nella primavera del 2004, non avevo ancora 25 anni, ho deciso di trasferirmi all’estero. Il 17 settembre sono partita per Berlino, con un volo di sola andata. Le mie ragioni sono state quasi del tutto personali. Dopo la laurea in Lettere, il mio sogno era quello di lavorare in una casa editrice e pensavo di fare il Master in Editoria di Umberto Eco. Ma l’idea di passare altri due anni a Bologna, e per di più all’interno dello stesso contesto, non mi allettava. (Tre anni dopo il mio arrivo a Berlino, dopo un tirocinio in casa editrice grazie alla borsa di studio Leonardo e il Großes Deutsches Sprachdiplom, che certifica il livello più di alto di conoscenza della lingua tedesca, sono stata poi ammessa al Master in Scienze Editoriali di due anni alla Freie Universität, un percorso parallelo a quello che avrei fatto con il master a Bologna. Due anni impegnativi, di ricerca e molto studio). Inoltre il ricordo della mia esperienza Erasmus era ancora troppo vivo. Dal 2000, per un anno, avevo studiato all’università di Göttingen. Era stato un anno sensazionale. Luoghi bellissimi, amicizie importanti che tutt’ora mantengo, persone provenienti da tutto il mondo. Era stata una delle esperienze più significative della mia vita e sentivo che non era conclusa: volevo tornare in Germania. Questa volta però in una grande città, la più europea, la capitale. Ma soprattutto: questa volta tornavo per restarci.

Mi racconti i tuoi primi mesi all’estero? Il periodo di adattamento.
Eventuali difficoltà, disagi, problematiche, ma anche il nuovo che hai trovato.
Come hai affrontato il tutto?

All’inizio non è stato facile, e questo in gran parte per colpa mia, non mi ero realmente informata sulla città prima di trasferirmi. La mia è stata una decisione dettata dal desiderio di conoscere meglio una realtà che pensavo potesse essere più vicina alla mia sensibilità. Non sapevo come funzionassero la sanità, il permesso di soggiorno (allora obbligatorio anche per i cittadini europei!), il riconoscimento dei titoli accademici. Vivevo in un appartamento insieme a ragazzi tedeschi, perché ho scelto fin dall’inizio di non frequentare la diaspora italiana a Berlino che, come’è noto, è davvero numerosa. In qualche modo, con il tempo, sono poi riuscita a districarmi da tutti i grovigli e a orientarmi nel labirinto della super efficiente, ma complicatissima, burocrazia tedesca. Sarebbe bastato organizzarsi prima, ora lo so. Eppure alcune cose mi sono piaciute da subito e mi hanno fatto sentire a mio agio sin dal primo giorno. Sapevo di essere nel posto in cui avevo sempre desiderato vivere. Prima tra tutte la libertà di movimento e l’efficienza dei trasporti pubblici: metropolitana, S-Bahn, tram e autobus circolano a Berlino 24 ore su 24 a intervalli brevissimi. A qualsiasi ora del giorno e della notte a Berlino è possibile fare spesa, andare in palestra o mangiare qualcosa fuori. I cinema, i teatri, le gallerie d’arte, le mostre, le possibilità di scambi interculturali. Quella berlinese è una realtà ricchissima, dal punto di vista sociale e culturale. Poi, la cosa più importante, la più liberatoria, che ho amato fin dall’inizio, è stata l’anonimato, il non sentirmi osservata né giudicata dalle persone che mi circondano – tutte: amici, conoscenti e sconosciuti. Ho amato da subito la discrezione, l’informalità, il rispetto nei rapporti umani, la libertà con cui si guarda alla vita degli altri. Poi, paradossalmente in una città con un’energia così forte, il silenzio.

Hai mai subito forme, più o meno gravi, di razzismo, intolleranza, emarginazione?

Spesso mi è capitato di avere a che fare con persone intenzionate a non ascoltarmi o a non capirmi. Non credo fosse un problema d’incomprensione linguistica quanto piuttosto di inflessibilità mentale. L’ho notato soprattutto nei funzionari comunali e statali (in questo ogni stato è paese!!). Ma si è trattato di episodi marginali. Può sembrare poco credibile ma la prima vera forma di razzismo l’ho subita durante i campionati mondiali di calcio in Germania, nel 2006. Fin dalle prime partite si poteva avvertire una specie di rinato nazionalismo tedesco e un astio inappropriato nei confronti degli italiani. Un articolo uscito sulla rivista Spiegel criticava la nazionale di calcio italiana con toni piuttosto pesanti, insinuando che la squadra stava vincendo le partite immeritatamente e solo grazie a “trucchetti” e bassezze di ogni tipo. L’atteggiamento dei calciatori veniva equiparato a quello degli italiani in generale: furbi, anzi furbetti, bugiardi, maliziosi. La situazione ha avuto una rapida escalation. A seguito della partita Germania – Argentina ci sono stati gravi scontri tra i tifosi per le strade. La sera della semifinale, in cui l’Italia ha vinto contro la Germania infrangendo così il sogno tedesco di conquista del titolo di “Weltmeister”, io mi trovavo in una delle tante Public Viewing della città. Non credo di esagerare dicendo che dopo la partita ho avuto realmente paura a tornare a casa, tanto era forte il clima di odio e di rabbia che percepivo intorno.

Com’è e cosa ti ha insegnato il posto in cui ora vivi, o – se sono più di uno – i posti in cui hai vissuto da quando hai lasciato l’Italia? Ti ha dato la possibilità di realizzare i tuoi progetti?

Da un punto di vista sociale, mi sento soddisfatta e ben inserita. Ho una rete di amicizie solida, persone che ho conosciuto e che mi hanno aiutato da subito, con cui ho sentito di potere essere davvero me stessa. Dall’altro lato non mi sento ancora realizzata al 100%, dal punto di vista professionale. Ma so che ho ancora molta strada davanti a me. Ora rispondo alla seconda domanda: a Berlino ho imparato a rialzarmi dopo ogni caduta e a ricominciare non da capo, ma dal punto in cui ero già arrivata. Anzi da più avanti ancora perché, metaforicamente parlando, non cado mai sul posto ma vengo sbalzata in avanti. Questo significa che la botta è più forte, essendo soli in un paese straniero, ma è anche un incentivo a proseguire. Non ho fatto passi indietro, neanche quando le cose sono andate in modo diverso dalle mie aspettative, o addirittura quando sono andate proprio male. Berlino mi ha insegnato che ogni fallimento può essere visto come una chance, che ci si può reinventare continuamente e che ci si può liberare facilmente da eventuali etichette che vengono appioppate dall’esterno. A Berlino ogni giorno so di potermi reinventare, qui c’è l’energia giusta per farlo, ti viene data la possibilità per metterti alla prova, non c’è paura del rischio e del progetto. L’attitudine di questa città è nel domani, sempre, anche in un momento di crisi come questo, che è ben percepibile anche qui. Ti senti libera di provare a costruire ciò che desideri. Questo non significa, ovviamente, che sia facile riuscirci. Serve la stessa determinazione e costanza che in altri Paesi, ma è lo spirito a essere diverso. Questo non mi era mai successo prima, soprattutto non in Italia, dove ho sempre avuto – e ho tuttora – l’impressione di portarmi dietro un fardello enorme di conseguenze per ogni minima azione o parola, per ogni posizione che esprimo.

Che cosa significa per te avere scelto di vivere all’estero? Qual è il tuo rapporto con ciò che succede nel paese in cui sei nata, con la tua famiglia, con la situazione politica, culturale, economica dell’Italia.

Il mio rapporto con l’Italia e soprattutto con il posto in cui sono cresciuta è ancora piuttosto conflittuale. All’inizio in Germania è stato difficile capire le dinamiche, come funzionavano i rapporti personali e professionali, poi sono entrata mentalmente nel meccanismo di Berlino, con il risultato che ora è l’Italia a essere per me incomprensibile. La concezione del lavoro, i rapporti tra le persone, ma anche le più banali azioni quotidiane. Anche il rapporto con la mia famiglia e con le mie vecchie amicizie non è semplice. Considerato che in questi anni, ai loro occhi, non mi sono ancora “sistemata” da un punto di vista professionale perché ho cambiato diversi lavori (ndr. negli otto anni che sono trascorsi da quando vive a Berlino, Camilla ha svolto diversi lavori, ha dato lezioni private di italiano, ha lavorato in una piccola casa editrice, come traduttrice freelance per una società di servizi,  al customer service per la Lufthansa, tra le altre cose), trovo difficile esprimere le mie posizioni, sento ancora un peso nel dover spiegare agli altri perché per me è così importante rimanere qui. Sento che per loro è incomprensibile, che si chiedono ancora, dopo otto anni, che cosa ci faccio esattamente a Berlino! La cosa più difficile è comunicare loro un modo diverso di intendere la vita, una diversa concezione del lavoro – che qui è molto più flessibile e veloce, per le persone giovani e non. È più semplice e comune, di quanto sia in Italia, cambiare diversi lavori, provarsi in diversi ambiti, un’attitudine lontana anni luce dall’idea del posto fisso o del lavoro sicuro o anche solo a lungo termine. Un piccolo esempio, qui mi è capitato di lasciare lavori “sicuri” ben retribuiti, perché non mi rispecchiavo in certe dinamiche, e questo per le persone con cui mi sono confrontata in Italia è una follia. Sento in loro molta paura per il cambiamento, e ora, in questa congiuntura economica disastrosa, tutto ciò è ancora più acuto. Per il resto non ho mai avuto alcun dubbio. Berlino è il mio elemento naturale e in Italia sono un “pesce fuor d’acqua”, da sempre.

L’Italia, vista da lì, come ti sembra? Qual è l’immagine dell’Italia nel Paese in cui vivi?
Pensi che dopo il ventennio di berlusconismo ora, nell’era Monti, qualcosa sia cambiato in questa percezione?

L’immagine dell’Italia vista da fuori è straziante: meravigliosa ma in declino, piena di ricchezze di ogni tipo che non sono sfruttate, piena di contraddizioni e sprechi. La situazione dei giovani che hanno voglia e bisogno di lavorare sembra drammatica e senza soluzione. L’Italia è per me oggi il paese delle vacanze, dove mi piacerebbe tornare un giorno – che però vedo lontano – per godermi l’”ultima” parte di vita. L’immagine dell’Italia in Germania è sicuramente migliorata con la fuoriuscita di Berlusconi. Non c’è dubbio. A mio avviso però, a torto. A quanto pare il governo tedesco e i tedeschi in generale pensano che gli scandali legati alla persona di Berlusconi e in generale lo stile dei nostri politici siano l’unico problema dell’Italia. Ma, purtroppo, temo si sbaglino. Angela Merkel ora loda Monti e le sue riforme. Sui giornali tedeschi si legge che la Deutsche Bank ritira gli investimenti in Spagna ma crede e investe ancora sull’Italia. Questo è per un italiano all’estero senza dubbio rassicurante. Credo però che i problemi dell’Italia siano più profondi e vadano molto al di là dell’immagine perduta, che ora lentamente si sta riacquistando, di serietà e credibilità di fronte all’Europa.

Se fino agli anni ’70 l’emigrazione italiana era in gran parte caratterizzata da bassissima scolarizzazione, ora sono i giovani pluri-laureati e specializzati a lasciare in numero sempre più consistente un paese che non riesce in alcun modo ad assorbire e a integrare le loro professionalità. Le migliori risorse sono quelle che lasciano il paese. Una diaspora che ha effetti significativi sulla reale possibilità di sviluppo del Paese. Cosa ne pensi?
Se avessi avuto, o se avessi ora, la possibilità di fare ciò che desideravi in Italia saresti rimasto? E ora, ritorneresti?

Da un lato la cosiddetta “fuga di cervelli” è penalizzante per l’Italia, dall’altro lato pienamente comprensibile. Riguardo a me, come ho già detto sono stata spinta all’estero più che altro da ragioni personali. Dopo la laurea non ho neanche provato a inserirmi in Italia – non ho mandato curriculum, non ho mobilitato la mia cerchia di conoscenti per avere un aiuto nella ricerca del lavoro. Sapevo che non potevo e non volevo rimanere, non posso quindi sapere se ce l’avrei fatta o no a realizzarmi. Ma non mi sono pentita della scelta di aver lasciato l’Italia, anche quando ho avuto difficoltà. Non ho mai pensato di rientrare.

Un consiglio ai giovani italiani che devono confrontarsi con una società che si trova ora in una congiunzione socio/economica così critica.

È difficile dare un consiglio che valga per tutti. Ogni persona rappresenta un “caso” unico, e deve fare i conti con le proprie origini, le proprie aspettative, i propri valori, la propria formazione. A chi ha un sogno o un obiettivo importante consiglio comunque di seguirlo con passione, con le proprie forze, ma anche di non rimanere deluso, di non sentirsi un fallito, se le cose che arrivano non sono esattamente come ci si aspettava, se – per esempio – non si riesce a trovare lavoro nel proprio ambito di studi o di professionalità. Da ogni esperienza si può imparare molto. Nell’ambito dell’attuale situazione socio/economica, consiglio piuttosto flessibilità e apertura mentale; consiglio di sviluppare tecniche di adattamento e di “metamorfosi”, di mantenere sempre la curiosità viva e soprattutto gli occhi aperti.

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Gli “Italiani” di questa rubrica sono i ragazzi che hanno scelto di lasciare l’Italia, e di portare all’estero determinazione, talento, e sogni. Ma sono anche quelli che in Italia vivono, studiano, lavorano. Figli di chi è arrivato qui per cercare una via di fuga. Ascoltiamo le loro storie, un passo nella loro vita. I loro progetti, i loro giorni, ciò che vedono nel domani di questo paese.

Nicola Tanno ha 26 anni, dal 2010 vive a Barcellona. Apriamo questa nuova rubrica con lui perché la sua è una storia di dolore e coraggio, che merita – a nostro avviso – di essere ascoltata e conosciuta.
Durante gli scontri avvenuti a Barcellona, in seguito alla vittoria della Spagna nel mondiale di calcio 2010, Nicola è vittima di un’aggressione da parte dei Mossos d’Esquadra, il corpo speciale antisommossa della polizia autonoma catalana. Un poliziotto gli spara a meno di 30 metri di distanza, procurandogli la perdita di un occhio.
Nicola ha scelto di portare avanti una battaglia per l’abolizione in tutta la Spagna delle Bales de goma, i proiettili di plastica della grandezza di una pallina da tennis che hanno causato a moltissime altre persone negli anni le stesse lesioni, fondando l’associazione Stop bales de goma. www.stopbalesdegoma.org


La storia di Nicola è anche raccontata nel libro Tutta colpa di Robben (Edizioni Ensemble, 2012).
Lo abbiamo raggiunto a Barcellona.

Ciao Nicola, mi parli un po’ della tua formazione, prima di lasciare il paese.
Dove vivevi, che cosa hai studiato, dove hai fatto l’Università, quale è stato il tuo percorso e quali erano i tuoi progetti futuri.

Sono nato e cresciuto a Campobasso. A 18 mi sono trasferito a Roma, dove ho studiato Scienze Politiche alla Sapienza. Il mio è stato il tipico percorso dello studente fuori sede nella capitale. Eravamo quattro amici della stessa città che convivevano nello stesso appartamento nel quartiere San Lorenzo, un contesto pieno di studenti, di vita notturna. Assieme a ciò i miei anni universitari sono stati contraddistinti dall’impegno politico, con giornate e anche nottate intere fatte di assemblee, riunioni e attacchinaggi. La politica è sempre stata molto importante per me e arrivato a 23 anni credevo anche che avrebbe costituito il mio futuro, ovviamente a Roma.

Quando e perché hai deciso di lasciare l’Italia? Quali sono stati i motivi che ti hanno portato a scegliere di vivere in Spagna, a Barcellona. 

Nel 2009 feci un viaggio di un mese in Irlanda un po’ per imparare meglio l’inglese e un po’ per staccarmi per qualche tempo dall’attività politica che non mi lasciava libero ormai da anni. In quel contesto connobbi colei che attualmente è la mia ragazza. È catalana e un anno dopo, dopo la laurea, decisi di trasferirimi a Barcellona per stare con lei e per proseguire gli studi. La Spagna era già in crisi economica, ma esercitava molto fascino. Di Barcellona ricordavo la descrizione di Orwell nel suo “Omaggio alla Catalogna”, mi attraeva l’immagine di una città calda e passionale ma allo stesso tempo organizzata e produttiva. Lì – o meglio qui, dove mi trovo ora – ho proseguito i miei studi.

La notte dell’11 luglio 2010 nelle piazze spagnole si festeggiava la vittoria della Spagna campione del mondo di calcio. Mi racconti come è andata quella notte?

Volevo assistere alla festa dei tifosi spagnoli. Con me avevo portato la mia videocamera perchè ero interessato soprattutto all’aspetto politico della questione, visto che il giorno prima c’era stata a Barcellona una grande manifestazione in difesa dello Statuto catalano. In quel contesto mi ero prima messo volutamente a filmare i tifosi di estrema destra. Volevo vedere l’altra faccia della città, la gente più distante dallo spirito ‘indipendentista’ del giorno prima. Quelli con la bandiera spagnola e i simboli franchisti. Era tutto abbastanza tranquillo. Poi sono intervenuti i mossos: una dozzina di furgoni che hanno sgomberato plaça de Espanya. Quando li ho visti arrivare mi sono allontanato. Volevo tornare a casa ma sono rimasto bloccato dalle cariche e dagli spari. Vicino a me c’era un bar con i tavoli fuori, ancora pieno di gente, così ho pensato di andare a bere qualcosa finché la situazione si calmava. Mentre mi avvicinavo al bar, un poliziotto, secondo i testimoni uscito da dietro un angolo, mi ha puntato il fucile in faccia da 30 metri e mi ha sparato. Ho perso un occhio, ho avuto un ematoma cerebrale e dei danni al volto – ora ho due placche in titanio. Sul momento ho creduto che si trattasse di un’esplosione. Mi sono ritrovato in aria, è come se fossi rimasto sospeso in aria per vari secondi. Ho pensato fosse scoppiata una bomba. Poi i ricordi si confondono. Ero per terra. La gente si è avvicinata intorno a me. Una ragazza italiana mi teneva la mano. Sentivo un caldo incredibile. Tenevo gli occhi chiusi. Mi sentivo il volto coperto di sangue. Allora mi sono portato una mano al viso, e ho sentito che un occhio non c’era più. A quel punto ho cominciato a gridare, a chiedere aiuto. E poi è arrivata l’ambulanza. Ed è iniziato il giro degli ospedali. Io continuavo a chiedere ai medici che mi salvassero l’occhio. Ma non c’era più nulla da fare.

Tu hai deciso di rimanere a vivere a Barcellona, di rendere pubblico ciò che ti è successo, di portare avanti una campagna di lotta per il divieto di utilizzo dei proiettili di gomma da parte dei corpi speciali della polizia spagnola, i Mossos d’Esquadra. Mi parli del vostro impegno, delle persone/enti/istituzioni che vi hanno supportato, di come avete deciso di portarlo avanti e dei risultati che avete ottenuto/state ottenendo.

Subito dopo l’incidente, già nei giorni in cui ero in ospedale, avevo deciso di voler portare all’esterno la mia storia. Non potevo accettare che la perdita del mio occhio venisse relegata al capitolo “incidenti sfortunati”. Proprio dall’impegno politico avevo imparato la necessità di portare all’esterno i problemi, di renderli pubblici. Di privato, nella mia storia, c’era poco visto che era stato un poliziotto a sparami e per di più senza alcun motivo. Atro che incidente! Mi informai e scoprii che vi erano altri ragazzi che avevano perso l’occhio nello stesso modo. Si trattava di persone ignare delle ragioni per cui erano state colpite. Nessuno di loro sapeva quale fosse il nome dell’agente colpevole, coperto vergognosamente dall’omertà della polizia catalana. Ciascuno di loro viveva il proprio doloro da solo, coi propri cari. Con Stop Bales de Goma abbiamo innanzitutto raccontato alla società catalana e spagnola i nsotri casi di ingiustizia. Abbiamo portato alla luce un problema, quello dell’uso dei proiettili di gomma, un’arma incontrollabile e arbitraria che può arrivare ad uccidere, come è successo quest’anno nei Paesi Baschi al povero Iñigo Cabacas. Abbiamo studiato i casi, l’uso delle armi, ci siamo avvalsi di esperti, abbiamo avuto riunioni con politici di tutti i partiti, siamo stati invitati ad internvenire in Parlamento e abbiamo anche manifestato. Nella Spagna e nellla Catalogna di oggi è difficile vincere una battaglia come questa ma la continuiamo a portare avanti, per chiedere maggior controllo dell’uso della violenza da parte della polizia e che, soprattutto, i responsabili di atti criminali come quelli di cui siamo stati vittime vengano identificati e processati.

Qual è stata la reazione dell’opinione pubblica spagnola, nei confronti di ciò che ti è successo. La stampa come ha reagito? E le istituzioni politiche? In Italia invece, la notizia ha avuto risonanza? Avete avuto segnali di interesse, di sostegno?

I catalani hanno mostrato grande attenzione alle nostre storie. Ormai da tempo e soprattutto negli ultimi anni è di dominio pubblico il fatto che i Mossos d’Esquadra si sono macchiati di violenze brutali contro manifestanti, immigrati, persone sfrattate dalle proprie case – o fianche a passanti, come nel mio caso. C’è scarsa fiducia nella polizia catalana e la vicenda delle vittime dei proiettili di gomma non ha fatto altro che accrescerla. Alcuni partiti politici hanno dimostrato una certa attenzione al tema del controllo e dei limiti dell’azione della polizia, ma sempre al di sotto del necessario. Basti pensare che uno di questi partiti era lo stesso che gestiva il Ministero degli Interni catalano quando sono stato ferito…Da parte delle istituzioni italiane ho ricevuto alcune attenzioni ma a più di due anni dalla perdita del mio occhio posso dire che il Consolato si è limitato solo alle belle parole. Il mio caso giace da un anno fermo, con una richiesta di archiviazione presentata dal giudice, e nessuno muove un dito.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Continuerai a vivere in Spagna?

Vivere oggi in Spagna è difficile, la crisi si sente in maniera profonda. Ero sul punto di tornare in Italia, ma all’ultimo momento ho trovato un lavoro. Chissà quanto durerà!

 

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